Il sogno di Olivetti patrimonio dell’Umanità

L'Unesco ha riconosciuto il 2 luglio Patrimonio dell'Umanità il modello di capitalismo inventato a Ivrea da Adriano Olivetti (1901-1960)

Agli esponenti del governo, dei sindacati e delle imprese che cercano di far quadrare il cerchio di un lavoro stabile e per tutti remunerativo si potrebbe consigliare un bel viaggio d’istruzione a Ivrea, ora che l’Unesco ha riconosciuto il 2 luglio Patrimonio dell’Umanità il modello di capitalismo inventato nella città piemontese da Adriano Olivetti (1901-1960). E così prendere visione di quelle fabbriche progettate in base alle attese degli operai e della loro felicità e poi andare a leggersi alcuni testi sul “capitalismo dal volto umano” scritti dal vulcanico industriale che s’inventò anche come piccolo editore.
Invece di appiattirsi in diatribe sul costo del lavoro, attingere alle ispirazioni del figlio di Camillo Olivetti darebbe concretezza e fiducia. Perchè l’ing. Adriano – dopo il tirocinio come operaio in fabbrica e un’intensa gavetta negli Stati Uniti – riuscì a realizzare almeno in parte il suo sogno (non chiamatela “utopia”), come ora gli viene riconosciuto dall’organismo mondiale che “premia” non solo i suoi capannoni di Ivrea ma anche la sua lungimirante visione economica.
Secondo Olivetti “l’economia nuova non deve essere più fondata esclusivamente sull’idea del profitto individuale, ma dovrà essere coscienza al lavoro, ambizione di servire la Comunità, orgoglio di una professione, senso del dovere sociale, gioia di creare”. Si tratta di una visione che è anche politica – non a caso Olivetti si cimentò anche in un tentativo di movimento politico e di riforma costituzionale in senso federalista – ma che è soprattutto personalistica. Ovvero che pone la valutazione dei fini di ogni iniziativa (anche quella dell’industria grande e piccola che sia) nell’impatto che essa ha sulle persone.
A proposito delle imprese, Olivetti affermava che esse “non sono fine a se stesse, ma esistono per svolgere una determinata funzione speciale. Esse sono strumenti per assolvere fini che le trascendono. Sono organi di sviluppo”. Quindi non producono solo ricchezza e lavoro, ma anche cultura, bellezza e qualità della vita”.
Andare a leggere le sue opere o semplicemente a sfogliare l’alfabeto olivettiano ci consente poi di cogliere altre definizioni illuminanti: “Non si può fare il mestiere di manager – affermava ad esempio – se non si capisce il nero dei lunedì nella vita di un operaio”. E poi, ancora la “rivoluzione proprietaria” per cui un’azienda può essere trasformata in una fondazione in cui oltre alla famiglia degli imprenditori e agli azionisti risultano proprietari anche gli enti pubblici, le maestranze, gli impiegati, i dirigenti”.
Bello e impossibile? Una visita ad Ivrea, l’incontro con la vita e gli scritti di Olivetti, possono aiutarci a coniugare un’idea alta di dignità dell’uomo alla quale viene finalizzato il bene-lavoro.
E’ questa la “dignità” con cui è stato definito in modo altisonante il decreto presentato il 2 luglio dal ministro Di Maio (subito complimentato dal collega Salvini)? Oltre all’atteso divieto alla pubblicità del gioco d’azzardo, finalmente previsto dopo un’ampia mobilitazione della società civile, contiene una serie di misure che puntano a limitare la precarietà, a disincentivare le delocalizzazioni e a congelare almeno in parte il redditometro. Soltanto i primi mesi di applicazione potranno dirci se la misura avrà l’efficacia auspicata. Oppure se, invece che spingere le assunzioni a tempo indeterminato, il decreto costringerà di fatto le aziende ad aumentare il turn-over fra i precari.
Non sappiamo cosa direbbe il patron Olivetti. Forse si metterebbe semplicemente al lavoro per una prospettiva di più lungo periodo in campo occupazionale. Intanto, forse utilizzerebbe in modo più adeguato la parola “dignità”, in questo caso umiliata, per i troppi migranti che in questa stessa settimana hanno finito la loro vita nelle acque del Mediterraneo.

(*) direttore “Vita Trentina” (Trento)

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