La laurea non apre più le porte. Ma apre le teste

Cultura vuol dire avere le parole per leggere e governare la realtà, vuol dire capire come funzionano le cose, significa apprezzare il bello, comprendere meglio che non si è soli e che il bene individuale si costruisce quando si pensa e si opera per il bene collettivo

Siamo in coda, in Europa, per i pochi giovani laureati. Solo la Romania è dietro a noi. Ogni anno si ripete questa litania. Quando viene presentata la nuova edizione del rapporto Eurostat, la lamentela è la medesima: i giovani italiani non arrivano a un livello sufficiente di formazione e a titoli adeguati.
Ma per quale ragione bisognerebbe spingere i nostri figli a studiare di più e laurearsi in massa? E perché loro stessi dovrebbero convincersene?
Fino a 30-40 anni fa il titolo di studio universitario era lo strumento per farsi strada nella vita. Per alcuni era motivo di riscatto, per altri era il mezzo grazie al quale si poteva accedere ad un lavoro qualificato, ad uno stipendio buono e ad un riconoscimento sociale ambito.
La laurea era, insomma, l’ascensore sociale.
Quali oggi, tra queste buone ragioni è rimasta valida?
Si fa fatica a dire che una di esse sia ancora attuale. E lo percepiscono per primi i ragazzi, che non sono per nulla attratti, spesso, dall’idea di protrarre di tre o cinque anni gli studi dopo il diploma.
Precariato infinito, occupazioni a singhiozzo e poco pagate, impieghi a volte interessanti ma mai stabili: ecco cosa aspetta, troppo spesso, i giovani laureati.
Insomma, l’ascensore non sale più, arranca, cigola, c’è chi vuole scendere.
E finché le cose non cambieranno, c’è poco da sperare che i giovani italiani scalino la classifica Eurostat dei laureati.
Resta una grande ragione per studiare e fare l’università. È però la più impalpabile. Cultura vuol dire avere le parole per leggere e governare la realtà, vuol dire capire come funzionano le cose, significa apprezzare il bello, comprendere meglio che non si è soli e che il bene individuale si costruisce quando si pensa e si opera per il bene collettivo.
Molto meglio di così ha detto Papa Francesco, in visita alla tomba di don Lorenzo Milani, l’anno scorso: “Senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole. Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso, e di dare espressione alle istanze profonde del proprio cuore, come pure alle attese di giustizia di tanti fratelli e sorelle che aspettano giustizia. Di quella piena umanizzazione che rivendichiamo per ogni persona su questa terra, accanto al pane, alla casa, al lavoro, alla famiglia, fa parte anche il possesso della parola come strumento di libertà e di fraternità”.
Perciò università significa anche più qualità per la vita, ma questa è una cosa che non si pesa con la bilancia né con il portafogli, si apprezza invece con la sensibilità. Basterà?

(*) Gente Veneta (Venezia)

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