Legge elettorale: servire e non servirsi

L’Italia ha un rapporto tormentato con le leggi elettorali. Se tutti ne ricordiamo nomi e soprannomi è perché la storia recente ne ha messi in fila più d’uno: Italicum, Mattarellum, Porcellum, Tedeschellum, Rosatellum e Rosatellum bis. O ci piacciono tanto o non siamo forti in materia - le bocciature della Corte Costituzionale confermano - e si va di modifica in modifica

In Italia le leggi sono un affare lungo e dibattuto. Conoscono accelerazioni che talvolta sono sembrate, a chi è lontano dai loro meccanismi complessi, dettate da opportunità di parte più che da quella del Paese. Alcune circolano da qualche anno. Un paio primeggiano su giornali e dibattiti tv: opinioni di favorevoli, contrari e anche di chi ha cambiato idea strada facendo. Vale per la legge elettorale e per quella dello ius soli. Vi si potrebbero aggiungere il fine vita e l’età pensionabile uguale per tutti, 67 anni, a partire dal 2019. Le ultime paiono ormai rinviate a data da destinarsi. Una data per certo successiva alla chiusura delle urne e alla formazione di un nuovo governo. Troppo scomode, se non rischiose, per chi cerca il consenso degli elettori. Sullo ius soli, che da più parti si invoca come atto di civiltà, potrebbero esserci sorprese.
La prima è urgente da molte lune. Da quando, nel febbraio 2013, dalle urne uscì un rebus irrisolvibile, un absurdum per cui chi aveva vinto le elezioni, il centro sinistra, si trovava privo della maggioranza al Senato. Impossibile all’incaricato di allora, Bersani, giungere ad un accordo tra le parti capace di un governo stabile. E un paio di mesi dopo arrivarono l’intervento del Presidente della Repubblica, Napolitano, e la nascita di un governo di larghe intese con il compito di traghettare il paese verso una nuova legge elettorale.
Tra una vicenda e l’altra, tra una crisi e l’altra, tra un primo ministro e un altro (Letta, Renzi, Gentiloni), di anni ne sono passati oltre quattro. Intervallati da appelli di ritorno alle urne, come da proposte dell’indispensabile nuova legge elettorale, pena rivivere lo stallo del 2013.
Potremmo esserci: il Rosatellum bis ha superato il vaglio della Commissione Affari costituzionali e della Camera dei Deputati. Attende quello del Senato, dove viene discusso nel giorno in cui questo giornale va in stampa. Sostenuto da quattro forze (Pd, Fi, Ap, Lega), criticato da altre (Mdp e M5S), tacciato di inciucio, attende una sfilza di emendamenti e l’incognita delle votazioni a scrutinio segreto. Il che rende possibile il successo come il suo contrario.
L’Italia ha un rapporto tormentato con le leggi elettorali. Se tutti ne ricordiamo nomi e soprannomi è perché la storia recente ne ha messi in fila più d’uno: Italicum, Mattarellum, Porcellum, Tedeschellum, Rosatellum e Rosatellum bis. O ci piacciono tanto o non siamo forti in materia – le bocciature della Corte Costituzionale confermano – e si va di modifica in modifica.
Il nome, anche questa volta, viene dall’ideatore. Ma nel nome, il caso vuole, vi si ritrova la valenza politica – la stessa per cui o piace o no -: una sinistra più rosa, capace di una intesa con la destra. Almeno per il tempo che basta a farla passare. Poi si vedrà.
Lavori e critiche hanno corso insieme tra commenti dei politici e una serpeggiante sfiducia dei cittadini, alimentata anche dal venir meno delle preferenze in scheda. Ora, è possibile che pure i cittadini siano colpiti dal dilagante populismo e per questo tendano a vederci gli interessi delle parti più che quello della nazione. Ma è altrettanto vero che, domenica 8 ottobre, alla Scuola per la democrazia di Aosta, il premier Paolo Gentiloni ha ricordato che “il compito della politica è innanzitutto lavorare per servire questo Paese”. Servire non servirsene.

(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)

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