Le lezioni di don Milani

Don Lorenzo, agli studenti alle prese con gli esami, lancia ancora il suo messaggio: impegno per quanto intrapreso, dedizione vera, vivere e non farsi vivere, difendersi e difendere dalle ingiustizie. Soprattutto amare gli altri e Dio

Barbiana, 20 giugno 2017: Papa Francesco visita la tomba di Don Lorenzo Milani (Foto SIR)

Un unicum è speciale, ma spesso appare agli occhi del mondo come uno strampalato troppo lontano dal “come si deve”. Don Lorenzo Milani un unicum lo è stato. Contestato prima, rivalutato a cinquant’anni dalla morte, accaduta il 26 giugno 1967. A Barbiana, l’esilio diventato il suo regno, volle essere sepolto: in talare. Lontano dalla famiglia, dal mondo, dalle gerarchie; tra sconosciuti diventati i suoi. Aveva scritto: “Se vuoi trovare Dio e i poveri bisogna fermarsi in un posto e smettere di leggere e studiare e occuparsi solo di far scuola ai ragazzi dell’età dell’obbligo. Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di creature, troverai Dio come un premio”.

Uomo di chiesa fattosi uomo di scuola: le due anime di don Lorenzo. Nessuna in linea con la norma. Mai avrebbe lasciato la prima, pur nei contrasti che da Calenzano lo portarono fino alla sperduta Barbiana (“Se faccio fiasco anche lassù – scrisse a un amico sacerdote – non mi resterà che farmi monaco, di quelli murati vivi per salvarmi almeno l’anima”). Mai il pensiero lo ricorda senza i suoi allievi.

Un unicum che faceva sul serio. Nello studio in cui eccelleva, come nelle contestazioni che seguirono contro l’arroganza del potere. Uno che seppe rovesciare la sua vita per creare la scuola popolare prima a San Donato di Calenzano, poi a Barbiana. Uno che aveva fatto di quel “I care” (mi interessa), la molla di ogni azione, intrapresa camminando sui passi di Dio. A suo modo, certo. A suo modo più di altri.
Un unicum originale: agiato, si fece contestatore, scegliendo la strada impervia della verità scomoda, della difesa degli ultimi: operai prima, montanari poi. Non fu il primo ad innamorarsi dei poveri. Oggi ce li ricorda Papa Francesco, che sulla tomba di don Lorenzo e di don Primo Mazzolari ha voluto recarsi in questi giorni. Secoli fa ne fu catturato un altro Francesco: per “sorella povertà” rinnegò la famiglia e la dignità facile che viene dal seguire la strada tracciata.

Don Milani, sbattuto tra i poveri sui monti a sbollire impeti da giustiziere sociale, la trovò lassù. Una povertà di mezzi, figlia della povertà del sapere. Non esitò a combatterla: si fece paladino del riscatto di coloro che gli erano stati affidati. Provocatore e obbediente insieme.

Partì dai piccoli, convinto – lo ricorda un suo allievo, Michele Gesualdi, in uno dei volumi usciti per questo anniversario – che “la vera povertà dei poveri sta nella mancanza del sapere e del dominio della parola”. Don Lorenzo non poteva accettare che questo continuasse. Impose ai suoi una domanda: “A chi giova?”. E la sua scuola si fece rampa di lancio: quante lotte con i ragazzi, in quel tempo pienissimo e senza pause domenicali, per trasmettere un metodo di studio capace di farsi stile di vita, per capire ogni parola letta, per adoperare ragione e critica, per esserci in quel mondo che, invece, escludeva i cervelli con le tasche vuote.

Don Lorenzo, agli studenti alle prese con gli esami, lancia ancora il suo messaggio: impegno per quanto intrapreso, dedizione vera, vivere e non farsi vivere, difendersi e difendere dalle ingiustizie. Soprattutto amare gli altri e Dio. E ai grandi, in un passo tratto da “Lettera a una professoressa”, lascia un promemoria: “La timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non lo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza”.

(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)

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