Maria Rita Logiudice: una storia triste che lascia sgomento e dolore

Una situazione di sofferenza, quella delle donne dell’organizzazione criminale, che - come rivela il presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella - “sta aprendo una breccia nel monolite della ‘ndrangheta”. Donne che denunciano, donne che chiedono di cambiare vita. Donne che ci provano studiando, impegnandosi in prima persona, ma che – forse – rimangono sempre da sole dinnanzi alla brutalità dell’essere figlia di un mafioso. Come Maria Rita

Perdere la voglia di vivere a venticinque anni, pochi mesi dopo aver raggiunto la laurea triennale in economia col massimo dei voti. Strano il destino di Maria Rita, venticinquenne reggina, che lunedì mattina, poco prima delle 7, si è lasciata cadere dal quinto piano. Non hanno dubbi gli inquirenti: si tratta di suicidio, seppur per la madre è stata necessaria l’autopsia per chiarire che quella figlia-modello non fosse sotto sostanze di stupefacenti. Era da poco rientrata dall’estero, Maria Rita, dopo una vacanza-studio nei luoghi della finanza europea dove sognava di arrivare con il sacrificio dei suoi studi e della sua forza di volontà.

Una storia triste, la sua, che ha lasciato sgomento e dolore.

Ma anche una patina di amarezza in tutta la comunità di Reggio Calabria che ha visto questa giovane vita consumarsi con un salto nel vuoto: Maria Rita è la figlia di Giovanni Logiudice, pluripregiudicato, oggi detenuto, e componente della “storica” famiglia di ‘ndrangheta omonima. I Logiudice in città, infatti, non sono “chiunque”: lo zio Luciano è uno dei più potenti boss-manager tra i clan calabresi, mentre lo zio, Nino “il nano”, è un personaggio altamente controverso. Da capo-militare della cosca, protagonista della stagione delle bombe contro la Procura di Reggio Calabria, a pentito che ha provato a ricostruire rapporti perversi tra componenti corrotti dello Stato e le mafie. Un collaboratore di giustizia che ha ritrattato il suo pentimento. Un boomerang per la sua famiglia: negli ambienti criminali i Logiudice perdono quota, mentre gli “anelli deboli” della catena – le donne – sono quelle più esposte. Come Maria Rita che, nonostante quel cognome che lei stessa confidava agli amici come “pesante”, aveva provato a farsi una vita dissociandosi da quell’eredità mafiosa.

Un patrimonio orribile, soprattutto per le donne di quel clan:

nel 1994, Angela Costantino, la zia della giovane Maria Rita, venne uccisa dai parenti perché tradì il marito, Pietro Logiudice, mentre questi era in carcere. Quindici anni dopo, nel 2009, si sono perse le notizia di Barbara Corvi, moglie di un altro fratello dei Logiudice, Roberto.

Una situazione di sofferenza, quella delle donne dell’organizzazione criminale,

che – come rivela il presidente del Tribunale dei minori di Reggio Calabria, Roberto Di Bella – “sta aprendo una breccia nel monolite della ‘ndrangheta”.

Donne che denunciano, donne che chiedono di cambiare vita. Donne che ci provano studiando, impegnandosi in prima persona, ma che – forse – rimangono sempre da sole dinnanzi alla brutalità dell’essere figlia di un mafioso. Come Maria Rita.

Un caso che ha scosso il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “È morta di isolamento. Se non siamo capaci di integrare chi cerca un futuro alternativo alla ‘ndrangheta abbiamo perso tutti quanti”. Parole crude che hanno interpellato anche il prefetto di Reggio Calabria che ha immediatamente convocato – per oggi (5 aprile) – un Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica finalizzato ad attivare un focus sul disagio sociale che vivono alcuni giovani appartenenti a famiglie di ‘ndrangheta.

(*) direttore “L’Avvenire di Calabria” (Reggio Calabria – Bova)

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