Diocesi: mons. Nosiglia (Torino), “ridare un’anima anche alla carità e al servizio professionale di chi si occupa di malati e poveri”

“No ad una realtà anonima che spersonalizza i rapporti e lasci vuota l’anima. Occorre ridare un’anima anche alla carità e al servizio professionale di chi si occupa dei malati e dei poveri”. Lo ha detto questa mattina, mons. Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, durante la messa celebrata alla Piccola casa della divina Provvidenza in occasione della festa di san Giuseppe Benedetto Cottolengo. Una festa che “offre ogni anno l’opportunità di riflettere insieme sull’azione poderosa e potente di grazia e di carità che ha avuto origine dal nostro Santo patrono”, ha sottolineato mons. Nosiglia. “Il suo esempio di santità – ha aggiunto – e di testimonianza evangelica vissuta nella umiltà e nel coraggio di fidarsi sempre della Provvidenza di Dio ci è di sprone per il nostro impegno di credenti, e lo è per tutti i membri della famiglia cottolenghina”. In un mondo “sempre più bisognoso di amore ai poveri e agli ultimi”, la testimonianza di s. Giuseppe Cottolengo è “per tutti stimolo incessante per un servizio generoso, competente ed efficace verso ogni fratello o sorella in difficoltà”. “I nostri giorni – ha sottolineato l’arcivescovo di Torino – non sono molto diversi da quelli vissuti dal nostro Santo. Certo le risorse e le possibilità di intervento, i servizi, sono cambiati profondamente e può sembrare che abbiamo a disposizione molto più di quanto avesse il santo. In realtà, sul piano spirituale, umano, di amore gratuito che mette al centro la persona oltre che i suoi bisogni possiamo ben dire che oggi, malgrado tanti principi e programmi di umanizzazione, come si usa dire, siamo ben distanti dal calore e dalla passione amorosa con cui il santo avvicinava i suoi buoni figli e quanti avessero bisogno”. Guardando alla realtà torinese, mons. Nosiglia ha rimarcato come stia “prevalendo la città dei garantiti a fronte di una crescente moltitudine di persone che stanno fuori, non solo ai margini, ma fuori nel senso che non se ne sentono più parte e inclusi. L’assistenza vitale di cui godono è ampia grazie ai diversi servizi, al volontariato e a tanti operatori e realtà del welfare, ma la percezione diffusa che portano nel cuore è quella dell’abbandono, della solitudine, della rassegnazione”.

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