Settimana sociale: le “voci del lavoro” in Italia. Tre testimonianze da cui emerge il “bello” e il “brutto”

(dall’inviato a Cagliari) – Storie positive accanto a tragedie. Esperienze da narrare con gioia e racconti dolorosi. È questo lo spaccato del lavoro italiano emerso dalle testimonianze presentate nel corso di “Le voci del lavoro”, la sessione conclusiva della prima giornata della 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani di Cagliari. Introdotte dalla giornalista Vania De Luca, vaticanista di RaiNews24 e presidente dell’Ucsi, sono state raccontate tre esperienze concrete. Lorenzo Monti, 18enne di Cantù, ha mostrato tutto l’entusiasmo di chi da un anno ha la possibilità di studiare e lavorare contemporaneamente. Un’opportunità – ha riconosciuto – “da prendere al volo e sfruttare al meglio”. Lavora in un’azienda che fa mobili; una passione nata “sin da quando ero piccolo grazie a mio nonno. Andava in bottega e mi portava con sé”. “Mi piace lavorare, mi piace il lavoro che faccio”, ha rivelato, aggiungendo che questo “spero che sia il lavoro per tutta la vita”. La cagliaritana Anna Cristina Deidda ha invece condiviso la sua esperienza come lavoratrice in una cooperativa sociale, “nata anche con il sostegno della parrocchia”. “Partiti in 9 soci fondatori, ora siamo 250 dipendenti” che si occupano di “assistenza agli anziani, maggiormente a domicilio ma anche in strutture” oltreché di minori, soprattutto nelle scuole, e di servizi di aggregazione e animazione. “Benché operiamo da 20 anni, ci sentiamo dei precari – ha denunciato – perché siamo legati alle gare d’appalto e la nostra politica è quella di cercare di non licenziare, reintegrando i nostri lavoratori o lasciandoli liberi di andare nelle altre cooperative vincitrici degli appalti”. L’ultima, toccante, testimonianza è stata quella di Stefano Arcuri di Taranto che racconta l’esperienza della moglie Paola, “morta nei campi a 49 anni nel 2015 per omissione di soccorso”. È una delle vittime del caporalato, “una forma di schiavitù”, l’ha definita il marito. “Paola – ha spiegato – lavorava in campagna, era una mamma come tutte le altre”. Arcuri ha raccontato del lavoro disumano nelle vigne dove lavorava la moglie per “le 100-150 giornate che si riescono a fare in un anno e per i 27 euro al giorno che erano necessari alla famiglia”. “Mi moglie portava a casa 27 euro al giorno benché la busta paga ne dichiarasse 52. I 25 mancanti sono quelli che lei come tutte le donne lasciano al caporale” che “organizza il lavoro” in modo che, “nella maggior parte dei casi, sembri legale”. Quello di Paola Clemente è diventato un “caso nazionale” e Arcuri ha ricevuto minacce.

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