Sud Sudan: ritiro spirituale in Vaticano. Card. Parolin, “tempo di grazia” per “un futuro di pace e prosperità”

Un “tempo di grazia” dedicato alla riflessione e alla preghiera, per chiedere a Dio “un futuro di pace e prosperità per la gente del Sud Sudan”. Nelle parole del segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, è questo il senso del ritiro spirituale in corso in Vaticano, presso la Domus Sanctae Marthae, con la partecipazione delle massime autorità civili ed ecclesiastiche del giovane Paese africano, indipendente dal Sudan dal 2011. Aprendo l’appuntamento, nel primo pomeriggio di ieri – riferisce Vatican News – il porporato ha portato ai presenti il saluto di benvenuto del Papa: Francesco – ha ricordato – incontrerà i partecipanti oggi pomeriggio, a conclusione del ritiro. Questa due giorni in Vaticano, ha spiegato il cardinale Parolin, è stata approvata dal Pontefice su proposta presentata dall’arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione anglicana, Justin Welby, che l’ha pensata – ha evidenziato il segretario di Stato – come una iniziativa “spirituale, ecumenica e diplomatica”. Si tratta, ha messo in luce il cardinale Parolin, di una “opportunità” di incontro e riconciliazione nello spirito “del rispetto e della fiducia” per coloro che “in questo momento hanno la missione e la responsabilità speciali di lavorare per lo sviluppo” del Sud Sudan, precipitato nel 2013 in una sanguinosa guerra civile, con un bilancio di almeno 400 mila morti. A prendere parte all’evento i membri della Presidenza della Repubblica del Sud Sudan, che in base al Revitalised Agreement on the Resolution of Conflict in South Sudan, firmato lo scorso settembre ad Addis Abeba, assumeranno incarichi ufficiali il prossimo 12 maggio: Salva Kiir Mayardit, Presidente della Repubblica; i Vicepresidenti designati Riek Machar Teny Dhurgon, Taban Deng Gai e Rebecca Nyandeng De Mabio, vedova del leader sud sudanese, John Garang. Presenti inoltre i membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan, con i predicatori del ritiro mons. John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu (Uganda), e il padre gesuita Agbonkhianmeghe Orobator, presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori dell’Africa e Madagascar.

L’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, ancora in viaggio verso Roma, ha fatto arrivare ai partecipanti appena riuniti il proprio saluto e il ringraziamento al Santo Padre per l’ospitalità “nella sua casa”, a sottolineare la sollecitudine di Francesco per il Sud Sudan, con l’auspicio che lo Spirito Santo “si posi” su tutti i leader del Paese, presenti al ritiro o non. Ricordato inoltre l’impegno dell’arcivescovo Paul R. Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, che ha visitato il Paese africano a fine marzo. Il gesuita Agbonkhianmeghe Orobator si è soffermato sul vero significato di ritiro spirituale, inteso come tempo “per incontrare Dio” o, meglio, come tempo in cui “Dio possa incontrare noi”. Il Signore, ha spiegato, “ci parla qui”, non “con il telefono cellulare”, né “attraverso Twitter, Facebook, Instagram”, in un percorso che è di guarigione, di purificazione e di missione come “artigiani di pace”. L’invito è stato a parlare “l’un l’altro” dal profondo del cuore, illuminati dallo Spirito, mai dimenticando i 13 milioni di abitanti del Sud Sudan, affinché l’accordo di pace sia siglato soprattutto “nei nostri cuori”. Il predicatore, presidente della Conferenza dei Superiori Maggiori dell’Africa e Madagascar, nella seconda parte del pomeriggio ha esteso la riflessione all’inno nazionale sudsudanese “South Sudan Oyee!”, sollecitando i presenti a declamarlo ed ascoltarlo durante il ritiro. In esso, ha spiegato, si menziona Dio due volte, all’inizio e alla fine: quella del Sud Sudan, ha evidenziato padre Orobator, è gente “di fede”, che con “un’unica voce” prega, glorifica ed esprime fiducia nel Signore, in “pace ed armonia”. La maggior risorsa e ricchezza del Paese, ha osservato, non è data dalla terra, dall’acqua o dal petrolio: è la gente. Il gesuita ha ricordato il giorno dell’indipendenza da Khartoum, il 9 luglio 2011: in tutti i sudsudanesi, di ogni etnia, c’era gioia, euforia, giubilo perché la nazione “era nata”, con una speranza di pace, giustizia, prosperità, libertà. Eppure, ha notato, nel Paese oggi ci sono “7 milioni di persone”, “quasi la metà della popolazione” locale, ridotti alla fame estrema, le scuole si abbandonano a causa delle violenze intercomunitarie e tra clan, 4 milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro case, rifugiandosi nei campi profughi. L’invito è stato allora quello a ricuperare il “sogno” dell’inno nazionale, andando oltre le “ostilità” e le “incomprensioni”, scegliendo tra la guerra e la pace, scegliendo “la vita”, per una riconciliazione che non è solo “personale” ma “nazionale”. Una sollecitazione proseguita anche nella cappella di Casa Santa Marta, dove il predicatore ha invitato i partecipanti a raccogliersi in preghiera.

 

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