Diocesi: card. Betori (Firenze), oggi “la fede rischia di essere piegata alla debolezza dell’uomo e di subire le insidie delle ideologie”

“Rendere grazie a Dio per il dono fatto a Firenze con la testimonianza di santità e di apostolato con cui questo suo figlio ha illuminato il proprio tempo e continua a essere fino ad oggi un richiamo all’importanza dell’educazione della fede”. Lo ha detto, ieri sera, l’arcivescovo di Firenze, card. Giuseppe Betori, nella celebrazione per l’apertura del 400° anniversario della morte del beato Ippolito Galantini, nell’Oratorio della Congregazione della Dottrina Cristiana, detta dei Vanchetoni, a Firenze.
Oggi “la fede rischia di essere piegata alla debolezza dell’uomo e di subire le insidie delle ideologie che vorrebbero catturarla”. La dimensione storica della tradizione ecclesiale e quella spirituale che ci fa discepoli dello Spirito Santo, ha aggiunto, “convergono nel guardare alla dottrina cristiana non come a un’arida somma di asserti, ma come a un modo di guardare alla vita che è lo stesso di Cristo”.
Parlando del beato, il cardinale ha evidenziato che “il beato Ippolito può essere ben identificato” in una delle “persone fidate”, “a cui gli arcivescovi fiorentini del tempo poterono affidare la dottrina della Chiesa, perché egli chiamasse il maggior numero possibile di ragazzi, giovani e adulti a confrontarsi con la parola di Dio e le esigenze che essa poneva alla riforma dei costumi e della società”.
Il porporato ha poi ricordato che il beato Ippolito Galantini, prima di giungere alla Confraternita di San Francesco detta dei Vanchetoni, “si ritrovò a trasmigrare in città da una Compagnia all’altra, sempre pronto a farsi da parte per non dare un’immagine di sé come voglioso di potere. Lo stesso nome popolare dato alla Confraternita da lui fondata, quello di Vanchetoni, ha la sua origine nell’atteggiamento umile del beato Ippolito che egli condivideva con i suoi seguaci, i quali, procedendo a testa bassa, venivano detti ‘quelli che vanno cheti cheti, o chetoni chetoni’”. Non si tratta, ha precisato l’arcivescovo, “di un puro atteggiamento esteriore e neppure di un comportamento per così dire virtuoso, bensì di consapevolezza di far parte di una storia della salvezza”.
Infine, “alla centralità del Padre e del Figlio suo indirizza la dottrina cristiana, l’insegnamento della vita buona, che il beato Ippolito ha diffuso nel suo tempo e che ora tocca a noi riproporre nelle modalità più consone ai nostri giorni”.

© Riproduzione Riservata

Quotidiano

Quotidiano - Italiano

Riepilogo

Informativa sulla Privacy