Giorgio La Pira: mons. Galantino, “utopista” dalla parte dei più deboli

“La Pira fu un grande utopista? Sì, se per ‘utopia’ intendiamo il realismo vero, quello che non si lascia isterilire dalla paura o dal calcolo”. Lo scrive il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, nell’articolo pubblicato oggi su “il Sole 24 Ore”, per la rubrica “Testimonianze dai confini”. Ricordando l’ex sindaco di Firenze, il vescovo ne sottolinea l’impegno verso i più deboli, gli sfrattati, i disoccupati, l’attenzione verso i giovani. “Sono un venditore di speranza, era solito dire di sé Giorgio La Pira. Mi piacerebbe che continuasse a vendere questa merce sempre più rara, anzi a volte contrabbandata con i suoi sottoprodotti: l’illusione, parole sdolcinate, promesse chiaramente irrealizzabili – aggiunge mons. Galantino -. Temo però che oggi non sarebbe consentito a La Pira di vendere speranza, come non gli è stato facile da vivo”. Parlando dell’iter per la sua beatificazione, il segretario generale della Cei spiega che, “paradossalmente e per alcuni, potrebbe ridurre la forza rivoluzionaria della sua proposta a causa della nostra mania di imbalsamare i santi o di metter loro aureole preconfezionate, che trascinano questi uomini e donne ai margini della storia che noi giorno per giorno viviamo”. Ma riconosce che siamo “in presenza di un forte bisogno di testimoni credibili in un mondo, il nostro, che sembra soffrirne terribilmente la mancanza”. E ammonisce: “Non serve nutrirsi di nostalgia inconcludente”. Giorgio La Pira è “un uomo che, come minimo, mette a disagio”. “Un disagio provocato dalla mancanza di grandezza, dalla mancanza di ‘prudenza’, dalla mancanza di calcolo. Disagio provocato, a volte, addirittura dalla sua ingenuità”. Una caratteristica che, secondo il vescovo, può rendere La Pira un “testimone” e “tanta altra gente soltanto dei comuni strilloni di idee senza possibilità di reali riscontri”. “Il disagio più evidente, dinanzi a La Pira, dovrebbero viverlo sia la struttura ecclesiastica sia quella politica. Di frequente esse sono tanto povere di speranza, da non riconoscere la luce e da non saper più correre i rischi e le imprudenze dell’amore”.

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