Cristiani perseguitati: p. Wehbe (Notre Dame University Beirut), “non dobbiamo tirarci indietro dalla testimonianza”

(da Bose) – “Abbiamo una testimonianza da rendere. Quella dei cristiani in Siria, in Libano, quelli che restano in Iraq e in Libia. Non dobbiamo certo tirarci indietro da questa testimonianza. Se i nostri Paesi vengono liberati dalle sofferenze, possono diventare un esempio che può avere un impatto sul punto di vista di altri nei confronti dei cristiani del mondo arabo”. Lo ha affermato oggi pomeriggio il padre ortodosso Boulos Wehbe, docente presso la Facoltà di scienze umane della Notre Dame University di Beirut, intervenendo al XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa in svolgimento fino a domani al monastero di Bose. Rispetto alla situazione dei cristiani in Medio Oriente, Wehbe si è detto “speranzoso, non ottimista”. Circa le diversità tra cristianesimo e islam, per esempio rispetto al fatto che il Corano nega la crocefissione di Cristo, secondo il padre ortodosso “il dialogo teologico deve andare avanti ma bisogna che tutto poggi su questa premessa: ‘Io ho una fede diversa dalla tua. Tu mi rispetti per questo e io farò lo stesso nei tuoi confronti’”. “Quello che si può fare in più è stare insieme – ha proseguito tra gli applausi – vivere insieme, accettare le nostre differenze e approfittare dell’esperienza altrui”. Precedentemente Wehbe aveva raccontato la sua esperienza personale: “Vivo in un edificio di 22 appartamenti e sono l’unico cristiano con la mia famiglia. I miei vicini affluiscono numerosi in occasione del Natale e della Pasqua per farci gli auguri. Alcuni ci salutano perfino con la frase ‘Cristo è risorto’, che è negata nel Corano”. “Se la ‘cultura’ è definita come lo stile di vita di una certa società o l’amalgama di valori, norme, abitudini, modi di pensare e comportamenti, nonché gli oggetti usati da una certa società – ha aggiunto – posso dire con certezza che cristiani e musulmani nell’ambito antiocheno e nelle zone geografiche adiacenti, condividono valori, norme, abitudini, modi di pensare e comportamenti molto simili”. “Questo ‘Dialogo della vita’ – ha rilevato Wehbe – è avvenuto perché ben radicato in una direzione continua storica, culturale e sociale che è ancora in corso. È veramente un tesoro che deve essere protetto, fortificato e alimentato”. “Ho cercato di abbellire il quadro della situazione?”, si è chiesto. “No”, ha continuato, “sono perfettamente consapevole dell’altro lato della medaglia, ma ho cercato di offrire un punto di vista che molti non sentono” perché sembra prevalere “l’approccio fanatico” che, secondo il padre ortodosso, non è “puramente religioso, ma è correlato con fattori sociali ed economici, gravato da ignoranza. Ha un impatto enorme e anche molte risorse a disposizione”. “Spero che la mia voce trovi eco nelle orecchie e nelle menti di molti e prego che il Signore mantenga viva e diffusa la luce della testimonianza in noi”, ha concluso, perché “è un esempio che dobbiamo cercare di cementare e diffondere”.

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