Paolo VI: mons. Semeraro, quel “pensiero alla morte”. “Mai avevo udito una testimonianza così alta e profonda”

“Mai avevo udito una testimonianza così alta e profonda, spirituale e carnale insieme ed è cosa che ancora oggi, dopo quasi quarant’anni, mi emoziona”. Così mons. Marcello Semeraro, vescovo di Albano e segretario del C9, ricorda il “permanente anelito alla luce” di Paolo VI, “definitivamente scolpito in quel mirabile ‘pensiero alla morte’ che, quando l’apprendemmo dopo che fu letto nella congregazione generale dei cardinali il 10 agosto 1978, lasciò attoniti e commossi”. “Camminate finché avete luce – scriveva Paolo VI citando Gv 12,35 -. Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce”. Nell’omelia della messa che Semeraro celebrerà domani mattina (ore 9) nelle Grotte Vaticane, accanto alla tomba del Pontefice – testo anticipato al Sir – il vescovo trova nelle parole di Montini una somiglianza con “l’esclamazione rivolta da Pietro a Gesù trasfigurato: ‘Signore, è bello per noi essere qui!’. Vi riconosciamo il desiderio e l’accoglienza dell’amicizia con il Signore. E Paolo VI ebbe alto il culto dell’amicizia. A leggere i suoi tanti interventi si nota subito come egli unisca abitualmente l’amicizia alla comunione. L’amicizia con Dio, certo e anzitutto, ch’egli intendeva e spiegava alla luce del Suscipe ignaziano; ma pure l’amicizia umana, che non disdegnava illustrare richiamando il de amicitia di Cicerone. Quest’amicizia, anzi, sulla scia della 1Gv Paolo VI la riteneva ‘esercizio graduale, propedeutico all’amore di Dio’ (cfr G. B. Montini, Meditazioni, Roma 1994, 161-163; Udienza del 26 luglio 1978)”.
Semeraro ricorda anche “un discorso dove Paolo VI parlava del pluralismo, preoccupato che ‘dalla plurisinfonia unificante e celebrante della Pentecoste’ non si retrocedesse alla babelica confusione delle lingue. Un problema, dunque, cui non manca l’attualità”: “La vera religione, quale noi crediamo essere la nostra – affermava Montini il 29 agosto 1974 -, non si può dire legittima, né efficace, se non è ortodossa, cioè derivata da un autentico ed univoco rapporto con Dio. Né un vago, e fosse anche commosso e sincero, sentimento religioso, né una libera ideologia spirituale costruita con autonome elaborazioni personali, né uno sforzo di elevare a livello religioso le pur nobili ed appassionate espressioni di sociologia lirica e morale di popoli interi, né le vivisezioni ermeneutiche rivolte ad attribuire al cristianesimo un’origine naturale o mitica, né ogni altra teoria o osservanza, che prescinda dalla voce infinitamente misteriosa ed estremamente chiara, risuonata sul monte della trasfigurazione e riferita a Gesù, raggiante come sole e candido come la neve: ‘Questo è il mio Figlio diletto, nel quale Io mi sono compiaciuto; Lui ascoltate’, potrà placare la nostra sete di verità e di vita. Beati noi, se ci metteremo nel numero dei piccoli, che sanno ascoltare una tale voce, e pregustare la felicità della certezza immortale”.

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