Carcere: mons. Delpini (Milano) a San Vittore, “sia un luogo dove si pratica l’arte del buon vicinato”

“Tu che cammini in un tratto di buio che può essere la tua cella, la tua solitudine, la tua sofferenza, hai ricevuto il dono della grande luce”. Lo ha detto l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, nell’omelia della messa, che ha presieduto ieri mattina, nel giorno di Natale, nel carcere di San Vittore, ai detenuti presenti, parlando di “una luce che visita il popolo degli ‘invisibili’, quelli che sono immersi nelle tenebre, il popolo dei dimenticati, che sono segregati e separati dagli affetti più cari e dalle attività più ordinarie”. “Splendore che rende chiaro, come in un’alba, l’orizzonte dell’esistenza, permettendo di rincominciare e che si rivela, con la stessa forza liberatrice, dentro e fuori dal carcere”. All’ingresso, mons. Delpini ha stretto le mani di coloro che si sono sporti da dietro le sbarre. “La presenza di Cristo è splendore che avvolge la storia dell’umanità” e quella personale che, magari, diviene “una ricostruzione per dimostrare che abbiamo avuto ragione e che, se abbiamo fatto qualche cosa di male, questo è dovuto alle circostanze in cui ci si trovati e alla cattiveria altrui”. O che, invece, è storia “segnata dal peso di ciò che è stato fatto, dal rammarico per quello che non siamo riusciti a fare, dal senso di colpa per quello che è andato male”. “La luce di Gesù – ha aggiunto – non fa diventare giuste le cose sbagliate, ma semina in ogni storia una vocazione alla santità, una chiamata all’audacia di ricominciare, una gioia di liberazione per lasciarci abbracciare dalla misericordia che perdona e si fa perdonare, che ricostruisce ciò che è stato distrutto. L’arcivescovo, infine, ha richiamato la speranza che il carcere possa diventare un luogo dove praticare “l’arte del buon vicinato” e ha visitato anche alcuni reparti. “Penso che qui si metta a dura prova lo stare vicino con persone che non si sono scelte e con le quali si divide uno spazio ristretto – ha concluso – ma vi chiedo che facciate di questo carcere un luogo dove si pratichi l’arte del buon vicinato”.

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