Salute: Università Cattolica e Fondazione Gemelli partecipano a progetto europeo sul fegato grasso

Ci sono anche l’Università Cattolica e la Fondazione Policlinico Universitario “A. Gemelli” di Roma tra i 47 centri di ricerca europei che partecipano al “pionieristico progetto di ricerca europeo” finalizzato a “sviluppare nuovi test diagnostici non invasivi per valutare i pazienti con steatosi epatica non alcolica (Nafld, il fegato grasso) e identificare quelli più a rischio di sviluppare grave danno del fegato legato a infiammazione e fibrosi (ovvero un accumulo di cicatrici nel fegato che conduce alla cirrosi e può favorire il cancro)”. Il progetto, intitolato “Liver investigation: testing marker utility in steatohepatitis” (Litmus), è finanziato nell’ambito della European innovative medicines initiative 2; durerà 5 anni e riunisce medici e scienziati di 47 importanti centri accademici in tutta Europa e aziende della Federazione europea delle industrie e delle associazioni farmaceutiche (Efpia). “L’Università Cattolica e il Policlinico Gemelli – spiega Luca Miele, dell’Area gastroenterologia – Polo Scienze gastroenterologiche ed endocrino-metaboliche del Policlinico – è partner del progetto coordinato dalla Università di Newcastle”. Secondo Antonio Gasbarrini, ordinario di Gastroenterologia alla Cattolica e direttore dell’Area gastroenterologica del Gemelli, “l’alta prevalenza del fegato grasso nella popolazione generale (20-30% delle persone ha fegato grasso) e la stretta associazione con il diabete e con l’obesità (il 70% degli obesi, oltre l’80% dei diabetici hanno il fegato grasso) fanno sì che la steatosi epatica rappresenti attualmente la prima causa di malattia cronica del fegato, con conseguente incremento dei costi in sanità pubblica”. “Il nostro – afferma Miele – è uno dei centri clinici che si occuperà di reclutamento e gestione dei pazienti”. I centri clinici coinvolti, continua il dottor Miele, “avranno la possibilità di testare i biomarcatori non invasivi che si basano su nuove tecnologie. Questo consentirà di sviluppare metodiche diagnostiche non invasive (esami del sangue e/o tecniche ecografiche e radiologiche) in grado di identificare le persone con steatosi che hanno un danno significativo e fibrosi del fegato senza dover ricorrere, in futuro, alla necessità di una biopsia. L’implementazione dei biomarcatori permetterà in futuro anche di ottimizzare e personalizzare i trattamenti farmacologici”.

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