This content is available in English

Papa in Myanmar: gesuiti, “saprà cosa dire o non dire sui Rohingya”. Atteso fuori programma il 29 novembre

(da Yangon) – La minoranza cattolica in Myanmar continua a chiedere a Papa Francesco, che visiterà il Paese dal 27 al 30 novembre per poi recarsi in Bangladesh fino al 2 dicembre, di non nominare la parola “Rohingya” perché potrebbe avere conseguenze negative sulla vita della piccola comunità e sugli equilibri interni della fragile democrazia nascente. “È un argomento sensibile e potrebbe creare intolleranze – confermano al Sir fonti locali legate ai gesuiti -. Siamo convinti che il Papa saprà come affrontare il tema e decidere secondo la sua coscienza. Saprà cosa dire e cosa non dire”. Impegnati come sono nel sociale, i gesuiti del Myanmar ci tengono molto ad aiutare i rifugiati, le famiglie in difficoltà, i giovani, ad investire nell’educazione per far crescere il loro Paese che, per la prima volta dopo 54 anni di regime militare, con la vittoria del partito della leader de facto e Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha ritrovato la speranza. La crisi nello Stato interno del Rakhine – da dove provengono i 620.000 rifugiati musulmani Rohingya fuggiti in Bangladesh in seguito alle violenze dell’esercito – ha però inasprito ulteriormente la situazione. Tramite il Jesuit Refugee Service sono coinvolti nell’assistenza agli sfollati a Cox’s Bazar, dove Caritas Bangladesh sostiene 29.000 famiglie. “Noi vogliamo continuare a prenderci cura dei rifugiati e di chi soffre – affermano – e allo stesso tempo mantenere in vita questo governo: perché se si critica la democrazia l’esercito può trarne vantaggio per riprendersi il potere”. In Myanmar le vocazioni tra i gesuiti sono in crescita: attualmente ci sono almeno una trentina di giovani seminaristi e il clero locale non vede l’ora di incontrare il proprio confratello e pontefice. Anticipano che sperano in un incontro privato tra gesuiti il 29 novembre, come spesso accade durante i viaggi papali. A Yangon i gesuiti lavorano in uno slum molto povero e in quartiere musulmano, dove hanno ricostruito finora 600 case distrutte dal ciclone Nargis nel 2008. Si occupano principalmente di educazione, formando giovani in collegi e accademie senza distinzioni di etnia e religione. Tra loro vi sono anche musulmani Rohingya e la convivenza procede serenamente.

© Riproduzione Riservata

Quotidiano

Quotidiano - Italiano

Territori

Informativa sulla Privacy