Profughi: padre Zerai (Habeshia), “autogestione nell’accoglienza e prevenzione in Africa”

Dare “maggiore autonomia” ai richiedenti asilo e rifugiati e fare in modo che “si autogestiscano con i contributi affidati direttamente nelle loro mani”, con “corsi di italiano obbligatori e percorsi di formazione per l’inserimento socio-economico nei territori”. È questa, secondo padre Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, la ricetta per evitare corruzione e traffici illegali intorno all’accoglienza degli immigrati e favorire una vera integrazione, eliminando tutte quelle situazioni che costringono all’irregolarità e alla precarietà. Ne ha parlato oggi pomeriggio a Roma, durante la presentazione del libro “Padre Mosè. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza” (Giunti Editore), scritto insieme al giornalista Giuseppe Carrisi. Il volume racconta la sua vita, sacerdote eritreo candidato nel 2015 al Nobel per la pace per il suo impegno per salvare le vite dei profughi durante i “viaggi della speranza” (lo chiamano al telefono mentre sono in mare, in situazioni disperate, o dalle carceri libiche o egiziane).

Padre Zerai vive tra Italia e Svizzera, dove è cappellano della comunità cattolica eritrea. Si è sempre definito “profugo tra i profughi” proprio perché la sua storia drammatica lo ha portato a fuggire a 17 anni dal regime eritreo e poi a lavorare nelle carceri libiche come interprete, dove si è reso conto delle tragedie vissute dai migranti sulla rotta Mediterranea. Da lì non ha più smesso di impegnarsi per loro. L’ultima chiamata al suo cellulare – scritto sui muri delle carceri, sulle magliette, sui salvagenti nei barconi – è arrivata sabato 14 gennaio alle 5 di mattina. Un barcone poi naufragato: i 4 sopravvissuti hanno poi raccontato all’Unhcr che c’erano 180 uomini, donne e bambini. “Il mare era agitato, hanno chiesto aiuto – ha ricordato -. Ma non sapevano nemmeno leggere il GPS per darci la posizione, sono stati mandati allo sbaraglio dai trafficanti, che non hanno scrupoli. Abbiamo tentato di ricontattarli con la guardia costiera ma non siamo riusciti. La tragedia era già accaduta. E questo purtroppo non è la prima volta che succede”. Perciò padre Zerai invoca “prevenzione e protezione” soprattutto nei Paesi limitrofi ai Paesi di origine dei migranti, perché “i muri e la chiusura delle frontiere non impediranno loro di partire”: “I giovani sono ben informati dei rischi. Quando andiamo nei campi profughi in Etiopia e facciamo vedere le immagini atroci di ciò che accade durante il viaggio ci rispondono: ‘bene, questi sono i pericoli, ma quale alternativa ci proponete? Tra morire lentamente qui e tentare la fortuna preferiamo tentare la fortuna’”.

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