Dialogo interreligioso: Anticoli al Sae, “occorre coinvolgere i giovani in un ebraismo vivo e dinamico”

Stamattina, durante i lavori della 53ª sessione di formazione ecumenica del Segretariato attività ecumeniche (Sae), in corso ad Assisi, sul tema “Di generazione in generazione” ha preso la parola l’organizzatrice di eventi culturali Micol Anticoli, che ha esordito: “Quando sono stata chiamata a parlare di identità ebraica ho subito pensato a quanto sia difficile definire l’essere ebrei. Dieci ebrei avranno dieci diverse visioni dell’ebraismo, tutte ugualmente valide. Avere una identità religiosa e culturale è molto importante soprattutto per la mia generazione, la più giovane, a causa del forte individualismo delle società moderne. Avere la consapevolezza di condividere dei valori e delle tradizioni con una intera comunità è qualcosa che fa sentire le persone meno sole, laddove le differenze sono ancora considerate un limite e non una risorsa”. Poi ha spiegato: “Pensando a quando si inizi ad apprendere cosa significhi essere ebreo, mi viene in mente che non ricordo il momento esatto, direi da subito. Alla mamma infatti l’ebraismo affida l’educazione dei figli e l’insegnamento di tutti gli usi e le regole quotidiane. Al papà invece la Torah comanda esplicitamente di insegnare i principi dell’ebraismo e a lui è affidato l’insegnamento dei testi”. Lo studio teorico non può però prescindere dall’applicazione pratica delle norme, dall’azione. “Le pratiche sono – ha chiarito Anticoli – l’aspetto che più resta impresso attraverso le generazioni. Penso per esempio alle comunità ebraiche del sud Italia, ora scomparse, ma delle quali sono rimaste alcuni usi come l’accensione delle candele del Sabato e l’impasto del pane a forma di treccia che al giorno d’oggi ci si ritrova a fare senza neanche saperne il perché: di tutto l’ebraismo ciò che è rimasto non è lo studio, non sono le nozioni, ma degli atti pratici”. In realtà, “riguardo alla trasmissione dell’identità ebraica alla mia generazione, il gap culturale può rappresentare un limite; per questo ritengo che per catturare l’attenzione dei giovani è necessario integrare i vecchi metodi di insegnamento con le nuove forme di comunicazione. Ritengo altresì che non basti più il ricordo e la memoria (nonostante questa sia un pilastro dell’ebraismo) ma occorre coinvolgere i giovani in un ebraismo vivo e dinamico, in cui la famiglia e la comunità condividano momenti positivi con le nuove generazioni. La conoscenza della propria identità, in questa ottica, non è importante soltanto per la sopravvivenza dell’ebraismo stesso, ma in funzione di un confronto consapevole con le altre religioni e le altre culture. Ho visto compagni di scuola ebrei nascondere la propria identità ebraica e soltanto dopo qualche anno ho capito perché: avevano paura di non essere compresi, avevano paura di essere derisi o considerati diversi, ma soprattutto – ha concluso – non conoscevano se stessi”.

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