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Siria. Parla il pianista di Yarmouk: “I sibili delle bombe sono lontani eppure risuonano nel cuore”

La guerra "non dipende dalla popolazione, che non l’avrebbe nemmeno cominciata: ha sempre vissuto in serenità e armonia, nelle sue realtà multiformi. Il problema è che il conflitto è una questione esterna, fondata su interessi internazionali. Peccato che a pagarne le conseguenze sia il Paese, al collasso totale". Così Aeham Ahmad, ormai noto come il “pianista di Yarmouk”, non smette di gridare attraverso la sua musica il dolore che lacera lui e la terra da cui proviene. Rifugiato in Germania da quasi 4 anni, ha tenuto nei giorni scorsi un concerto al teatro San Domenico di Crema

Foto di Stefanino Benni

“Ho accanto la famiglia, ecco perché adesso sono felice. Mi basta un attimo, però, per sprofondare nello sconforto: succede ogni volta che penso al mio Paese”. Aeham Ahmad non riesce a nascondere l’angoscia, che traspare subito dallo sguardo, prima che dalla voce, mentre parla della Siria. Il “pianista di Yarmouk”, ormai è celebre in tutto il mondo sotto questa denominazione, non smette di gridare attraverso la sua musica il dolore che lacera lui e la terra da cui proviene. Rifugiato in Germania da quasi 4 anni, ora che ne ha 31 abita a Wiesbaden insieme alla moglie, ai due figli piccoli e ai genitori, che lo hanno raggiunto dopo un’attesa sfibrante. Del fratello, rinchiuso in un carcere senza nome e senza ragione, non sa nulla da troppo tempo. “La mia vita è una rivoluzione, ma non mi lamento; anche se giorno dopo giorno non si semplifica, anzi. I sibili delle bombe sono lontani, eppure risuonano nel cuore” aggiunge al termine del concerto al teatro San Domenico di Crema, uno degli eventi organizzati per festeggiare il centenario dell’Istituto musicale Folcioni.

Dalla Siria riceve notizie?
Sì, catastrofiche. Gli aggiornamenti degli amici e dei parenti non lasciano speranza. Nessuno sa che le acque del mare Mediterraneo non sono le uniche a mietere vittime: a ridosso del fiume Afrin ci sono veri e propri accampamenti e la piena spesso trascina e uccide chi è costretto ad abitare sulle sponde.

Yarmouk, il campo profughi alle porte di Damasco da cui provengo, è distrutto al 100 per cento: parlo di cose e, ancora di più, persone.

https://youtu.be/PJQR1Ton9tA

Tutto è immobile e il futuro si prospetta drammatico. Non credo che la guerra finirà a breve.

Perché?
Perché non dipende dalla popolazione, che non l’avrebbe nemmeno cominciata: ha sempre vissuto in serenità e armonia, nelle sue realtà multiformi. Il problema è che

il conflitto è una questione esterna, fondata su interessi internazionali.

Peccato che a pagarne le conseguenze sia il Paese, al collasso totale. Per portare un esempio pratico: la benzina scarseggia e bisogna mettersi in fila cinque ore per recuperarne appena 3 litri. L’unica soluzione di pace? Smettere di costruire armi, semplice. Altrimenti a breve sentiremo parlare di un’altra Siria.

Foto di Stefanino Benni

Come vede il suo futuro?
Da un lato desidero che prosegua così: mi rendo conto di essere molto fortunato a dormire sotto lo stesso tetto con i miei cari. Dall’altro, mi auguro un cambiamento netto: palestinese rifugiato in Siria e poi in Germania, sogno di avere finalmente quell’identità che spetta a ogni individuo e mi è stata negata dalla nascita. Rivendico il rispetto nei confronti della mia persona e il diritto di possedere il passaporto. Per me e chi porta il mio nome; non importa quale Stato ce lo concederà, noi saremo grati a quel Paese in eterno.

Cosa significa la musica per lei?
Tutto. Una fonte inesauribile di emozioni, come la gioia di provare libertà; mi dà la forza di non arrendermi, mi apre l’immaginazione e risana lo spirito. Però, mi provoca anche una sofferenza estrema.

Quando propongo dal vivo il mio primo cd, Music for Hope, il dispendio di energie è enorme e scendo dal palco esausto. Fisicamente e psicologicamente: i brani scritti tra le macerie mi riportano alla tragedia e mi squarciano l’anima.

Certo, il pianoforte mi permette di mantenere la mia famiglia numerosa, ma questa responsabilità mi spinge a lavorare senza sosta. Non ho alternative: se non garantisco la sicurezza economica, crolla il nostro piccolo mondo, Sto attraversando un periodo affollato di domande.

Di che genere?
Sul senso di ciò che sto facendo. I ritmi che sostengo mi stanno consumando, tolgono attimi preziosi agli affetti e tutti a casa accusiamo il peso delle mie assenze: fatico a trascorrere un paio d’ore con i piccoli. Forse è il momento di chiudere un capitolo e riconnettermi con me stesso e le mie amatissime note, riprendere in mano la vita e rinascere.

Foto di Stefanino Benni

Come?
Portando avanti progetti diversi. Senza fretta, ho realizzato tre album: Keys to Friendship insieme all’Edgar Knecht Trio ha un’impronta jazz con incursioni folk, e ho prodotto e registrato in Spagna Aeham Ahmad & Friends, in cui suono con artisti di tutto il mondo, dal Giappone al Venezuela. Il violoncellista Cornelius Hummel, invece, mi ha accompagnato nel disco di modern music Connecting Culture e nei prossimi mesi dovrei registrare Music for Peace, che mischierà pezzi scritti in Siria e nuove canzoni.

Ha pubblicato anche l’autobiografia “Il pianista di Yarmouk”…
Nel cassetto c’è una bozza per un altro libro, ma preferisco lasciarla chiusa lì. Temo che la mia corsa sfrenata nasconda il rischio di perdere il controllo e buttare all’aria ogni sforzo.

A volte mi salta persino in mente di prendere una lunga pausa.

Se non ho ancora preso questa decisione, è colpa o merito di chi incontro ai concerti e ai reading.

Sarebbe a dire?
Le persone che si fermano per salutarmi sono sempre tantissime: è proprio dalle comunità, nei piccoli centri come nelle grandi città, che ricevo il sostegno più potente e sincero. E trovo il coraggio di andare avanti.

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