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A Gerusalemme e a Tel Aviv la pace scende in campo con i giovani atleti di Laureus

A Gerusalemme e a Tel Aviv, due progetti della fondazione “Laureus Sport for Good” testimoniano come "lo sport può cambiare il mondo e unire i popoli come poche altre cose sanno fare". Grazie al basket e al calcio scendono in campo squadre composte da giovani atleti israeliani, palestinesi  e da figli di migranti e rifugiati. Giocando insieme si conoscono e abbattono paure e pregiudizi trascinandosi dietro anche le loro famiglie. La pace passa anche attraverso un campo di basket e di calcio

Peres center, ragazzi israeliani e palestinesi

Malak, poco più che 16 anni, è una ragazza palestinese, di fede musulmana che abita a Gerusalemme Est. Liraz, 18 anni, è invece una ragazza ebrea che vive nella parte Ovest della Città Santa. Entrambi con un’unica passione: il basket. La tensione palpabile di questi giorni, dopo l’annuncio del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, non sembra per nulla intaccare la loro amicizia dentro e fuori il parquet, così come quella delle compagne di squadra.

“In campo – dicono in coro – ci aiutiamo, lottiamo l’una per l’altra, ci capiamo subito e basta una semplice occhiata per decidere lo schema e andare a canestro. Siamo una squadra e ragioniamo da squadra. Non c’è spazio per personalismi e individualismi”.

Malak e Liraz (Foto: Markus Gilliar)

Mentre parlano, sorridono, una si appoggia alla spalla dell’altra, parole in ebraico che si fondono a quelle in arabo. Dietro di loro il resto della squadra che sbuffa e suda in campo. C’è da onorare un campionato nazionale femminile che le vede primeggiare da diversi anni ormai. La loro squadra si chiama, significativamente, “Jerusalem” ed è ben conosciuta perché è l’unico team del torneo ad avere nelle sua fila cestiste arabe e israeliane. “E non poco sconcerto provochiamo tra gli spettatori quando entriamo in campo tutte insieme”, affermano ridendo.

La pace a canestro. Il basket come stile di vita, lo sport come strumento per abbattere ponti di incomprensione e costruire fiducia: come viene insegnato loro dalla Laureus Sport for Good (www.laureus.com), fondazione che sostiene oltre 100 progetti e iniziative sportive solidali in 35 Paesi del mondo, tra cui anche Israele e Palestina, dove attraverso la sua “Laureus Sport for Good Middle-East” (Sfgme), sostiene, in particolare, due programmi: uno per promuovere la pace e l’amicizia attraverso il basket e un altro, in sinergia, con il “Peres Peace Center” con sede a Tel Aviv, attraverso il football.

Jens Thiemer

Il Project manager di Sfgme, il tedesco Jens Thiemer, che nella vita ricopre la carica di vice-presidente marketing del gruppo automobilistico Mercedes-Benz, che supporta “Laureus Sport for Good” sin dalla sua nascita nel 2000, osserva gli allenamenti seduto poco distante e commenta con le parole di Nelson Mandela, primo grande patron della Fondazione: “Nessun sogno è troppo grande”.

“Il nostro sogno è la pace e lo vogliamo condividere con migliaia di giovani arabi e israeliani che in questi anni hanno partecipato ai nostri progetti sportivi. Siamo convinti che lo sport sia uno strumento in grado di cambiare il mondo”.

Malak e Liraz, con tutto il loro team arabo e israeliano sembrano dargli ragione.

“Avversari e non nemici” in campo. Ma anche i sogni hanno un prezzo da pagare. Quello del team “Jerusalem” lo racconta l’allenatrice, nonché una delle operatrici di “Laureus Sport for Good Middle-East”, l’israeliana Heni:

Heni

“Dal 2006 a oggi abbiamo avuto ben 8mila atlete nel progetto. Moltissime ricevono pressioni dagli amici, a scuola dagli insegnanti, spesso anche dai loro familiari. Non vogliono che giochino accanto a una palestinese o a una israeliana. Qui, sin da bambini, ci viene insegnato che l’altro è il nemico di cui aver paura, dunque da evitare. Sono le tristi conseguenze del conflitto che dura da 50 anni. Ma per noi non esistono nemici ma solo avversari in campo”.

La squadra “Jerusalem” con Chamique Holdsclaw

Mentre parla, s’interrompe e con il fischietto, richiama le sue ragazze impegnate nel parquet della grande palestra del Jerusalem International Ymca, sito nella parte ebraica della Città Santa, a fare propri i consigli di una leggenda mondiale del basket femminile, Chamique Holdsclaw, campionessa olimpica a Sidney 2000 con la squadra Usa di basket. Chamique è una delle oltre 180 star dello sport mondiale, che oggi, dopo aver inanellato una lunga serie di successi, dedica il suo tempo ai giovani di tutto il mondo in qualità di ambasciatrice “Laureus Sport for Good” per testimoniare l’importanza dello sport come strumento di amicizia e di pace. “Perché vivere in pace e in amicizia si può – aggiunge Heni –.

La chiave di tutto è il dialogo. La ragione o la colpa non stanno mai da una parte sola.

Ciò che per noi è importante è il gioco di squadra, aiutarci dentro e fuori dal campo, così abbattiamo muri e barriere. Rispettarci come atleti e come persone”. E i risultati si vedono:

“Le famiglie che prima erano restie a far giocare le loro figlie con altre ragazze israeliane o palestinesi oggi sono le prime tifose della squadra. Messa da parte ogni differenza etnica e religiosa, ci si ritrova alle partite tutti insieme a tifare per la ‘Jerusalem’. Le partite ‘in trasferta’ diventano così un mezzo per testimoniare che si può vivere insieme”.

E come ogni squadra che si rispetti non manca un pensiero o “un canestro” per tutte quelle ragazze che “avrebbero voluto fare parte della squadra ma che non è stato loro concesso dai familiari”. La strada da fare resta lunga. Il campionato della convivenza e della pace si vince giocando fino all’ultima partita.

Un goal per la convivenza. Dal campo di basket a quello di calcio, da Gerusalemme a Tel Aviv, un percorso al contrario, ma solo per caso, di quello che qualcuno oltreoceano vorrebbe far fare alla propria rappresentanza diplomatica. A Pardes Katz, sobborgo di Tel Aviv, nella scuola pubblica “Komemiut”, parola che vuol dire “indipendenza”, centinaia di alunni, molti figli di famiglie ebreo ortodosse, prendono parte ai programmi del “Peres Peace Center”, fondato nel 1996 da Shimon Peres, premio Nobel per la pace e presidente dello Stato di Israele dal 2007 al 2014.

Tamar Hay-Sagiv

Qui non si gioca a basket ma a calcio. Tamar Hay-Sagiv, direttrice del dipartimento “Educazione” del “Peres Peace Center” calcola in circa 20mila i bambini e i giovani, israeliani, palestinesi e figli di rifugiati e migranti, che in questi anni hanno partecipato ai progetti del Centro, anche questi sostenuti da “Laureus Sport for Good”. “Il campo di calcio – spiega Tamar – è il luogo dove tutti questi ragazzi si incontrano, imparano a fidarsi gli uni degli altri, a stare insieme”.

Peres Centre for Peace (Foto Markus Gilliar)

Sotto una fitta pioggerellina i piccoli atleti giocano, si chiamano la palla, sembra una babele di lingue, ma dietro a quella sfera tutti si capiscono, si scoprono doti e qualità, chi recupera palloni, chi corre e suda per gli altri, chi para, chi inventa traiettorie e chi segna. E poi abbracci o pacche sulle spalle. Un clima che resta anche dopo il triplice fischio finale.

“Le vittorie e le sconfitte cementano la loro amicizia e quelle delle famiglie, giorno dopo giorno. In questo modo il calcio aiuta a costruire ponti tra due culture e a superare tutti quei pregiudizi che si nutrono da ambo le parti”.

Una partita vitale per il futuro di questa terra che si può giocare anche su un prato verde di calcio. Per Tamar

“ogni partita è una goccia di pace che irriga la nostra terra. Non possiamo aspettare le decisioni calate dall’alto dalla politica.

Cerchiamo una pace sostenibile perché vivere insieme è possibile”. Nel match tra sport e guerra non esiste pareggio. Le giovani cestiste del team “Jerusalem” e le promesse calcistiche del “Peres Peace Center”, la loro partita la stanno vincendo sul campo.

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