Non uno di meno

«Quaranta in meno!». Sono seduto al tavolino di un caffè nella piazza di un piccolo paese della nostra provincia. È agosto e fa caldo, ma un brivido freddo mi attraversa la schiena. L’uomo alle mie spalle sta commentando l’ennesimo naufragio di migranti al largo di Lampedusa. Questa volta – dicono i giornali - sono morte 41 persone, tra cui 3 bambini. Vorrei girarmi, dirgli qualcosa, ma mi trovo come paralizzato dalla stupidità e dalla cattiveria di quelle parole. Mi chiedo se quell’uomo abbia una moglie, dei figli, dei nipoti. Penso che di certo ha ricevuto il Battesimo, magari qualche volta va anche a Messa la domenica.

«Quaranta in meno!». Sono seduto al tavolino di un caffè nella piazza di un piccolo paese della nostra provincia. È agosto e fa caldo, ma un brivido freddo mi attraversa la schiena. L’uomo alle mie spalle sta commentando l’ennesimo naufragio di migranti al largo di Lampedusa. Questa volta – dicono i giornali – sono morte 41 persone, tra cui 3 bambini. Vorrei girarmi, dirgli qualcosa, ma mi trovo come paralizzato dalla stupidità e dalla cattiveria di quelle parole. Mi chiedo se quell’uomo abbia una moglie, dei figli, dei nipoti. Penso che di certo ha ricevuto il Battesimo, magari qualche volta va anche a Messa la domenica. Dove sono la sua coscienza e il suo cuore? Dove ha perduto la sua umanità? Che cosa gli hanno fatto, a lui personalmente, i migranti per arrivare a provare soddisfazione per la morte in mare di quaranta di loro? Il problema, in breve, appare chiaro ed è fondamentalmente uno solo: il colore della loro pelle, un razzismo ancora latente e radicato. Quante persone iniziano i loro tristi, meschini discorsi dicendo “Io non sono razzista, ma…”. E quel “ma” è sempre di troppo, perché porta a giustificare posizioni ingiustificabili e a mettere in atto discriminazioni pericolose. La retorica populista dell’invasione trova terreno fertile nell’analfabetismo di ritorno, nella mancanza di fede, nel materialismo che uccide lo spirito, nelle frustrazioni di tanti che sembrano esaltarsi nel trovare un capro espiatorio cui attribuire tutte le colpe per le cose che non funzionano nel nostro Paese e, soprattutto, nella loro vita. Perché, diciamolo una buona volta, il “prima noi” non è in realtà che l’egoistico e malcelato “prima io”, di chi vive arrabbiato, forse ferito, a causa delle proprie sconfitte e insoddisfazioni. Un altro brivido mi attraversa la schiena quando quell’uomo seduto dietro di me si alza per andarsene. Mi passa davanti. È un piccolo uomo qualunque. Ha l’apparenza di un innocuo pensionato. Forse l’accostamento è azzardato, ma mi vengono in mente Adolf Eichmann (il ragioniere delle deportazioni naziste) e il saggio di Hannah Arendt a lui dedicato: La banalità del male. Un male banale, rancoroso, covato forse a lungo nel cuore per poi manifestarsi nei discorsi al bar o, cosa oggi ancor più pericolosa, sui social, spesso ridotti a latrine intasate da persone che hanno perduto il senso del bene e della nostra comune umanità. L’appello di papa Francesco alla fraternità universale appare davvero quanto mai necessario e urgente. Questa domenica la Chiesa Cattolica celebra la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Venne istituita nel 1914, quando i migranti economici eravamo noi e la guerra, per la prima volta “mondiale”, stava per causare onde enormi di profughi e di rifugiati. Nel messaggio per la Giornata di quest’anno, il Papa ricorda una semplice verità che non dovremmo mai dimenticare, prima di aprire bocca e dire la nostra: “Migrare dovrebbe essere sempre una scelta libera, ma di fatto in moltissimi casi, anche oggi, non lo è. Conflitti, disastri naturali, o più semplicemente l’impossibilità di vivere una vita degna e prospera nella propria terra di origine costringono milioni di persone a partire”. Costretti a partire, anche dalle nostre ingiustizie e dal nostro egoismo, o perlomeno da quelle su cui si fonda in larga parte il benessere della nostra parte del mondo. E finché non ci saranno pace, tutela dell’ambiente e una più equa distribuzione delle ricchezze, i poveri non si fermeranno, continueranno giustamente a partire per cercare una vita migliore e non ci sarà confine, blocco navale o altro deterrente in grado di fermare le migrazioni. Sono esseri umani, persone, come me e come te. Proviamo a guardarli negli occhi e ad ascoltare le loro storie, e allora anche un solo morto in mare ci sembrerà di troppo.

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