Istat: a settembre la disoccupazione è tornata a salire al 10,1%

In confronto al mese precedente, a settembre ci sono stati 34mila occupati in meno (-0,1%) e 81mila disoccupati in più (+3,2%). I due dati non sono simmetrici perché per le statistiche definiscono disoccupati non semplicemente coloro che non hanno un lavoro, ma soltanto coloro che pur non avendolo lo stanno attivamente cercando. C'è infatti una terza categoria, quella degli inattivi. A settembre sono diminuiti di 43mila unità (-0,1%) e questo può contribuire a spiegare l'aumento dei disoccupati, in cui è verosimile che siano confluiti almeno in parte gli ex-inattivi

A settembre – comunica l’Istat – l’occupazione è tornata a scendere, sia pur lievemente, e la disoccupazione ha rialzato la testa, dopo due mesi in cui su entrambi i fronti si erano registrati andamenti inversi. Ma si è trattato di un’illusione di breve durata. In confronto al mese precedente, a settembre ci sono stati 34mila occupati in meno (-0,1%) e 81mila disoccupati in più (+3,2%). I due dati non sono simmetrici perché per le statistiche definiscono disoccupati non semplicemente coloro che non hanno un lavoro, ma soltanto coloro che pur non avendolo lo stanno attivamente cercando. C’è infatti una terza categoria, quella degli inattivi. A settembre sono diminuiti di 43mila unità (-0,1%) e questo può contribuire a spiegare l’aumento dei disoccupati, in cui è verosimile che siano confluiti almeno in parte gli ex-inattivi.

A settembre, sempre secondo le stime provvisorie dell’Istat, il tasso di occupazione è sceso al 58,8% (-0,1%) e quello di disoccupazione è cresciuto dello 0,3%, superando nuovamente quota 10% (per la precisione è salito al 10,1%). In aumento dello 0,2% anche il tasso di disoccupazione giovanile, che si è attestato sul 31,6%.

Se si guarda all’interno di questi numeri complessivi, si ha l’ennesima conferma delle tendenze in atto in relazione alle classi di età e alle tipologie di contratti. Il calo dell’occupazione, infatti, si è concentrato tra le persone tra i 25 e i 49 anni e tra i dipendenti stabili (-77mila unità), mentre sono aumentati i contratti a termine (+27mila) e gli indipendenti (+16mila). Se dal confronto mensile si passa a quello relativo agli ultimi tre mesi, il dato medio generale è di sostanziale stabilità, tra alti e bassi. L’occupazione, ancora una volta, aumenta tra gli ultracinquantenni e tra i lavoratori a termine, che crescono del 3,2% (+98mila unità), mentre diminuiscono i lavoratori stabili (-85mila) e gli indipendenti (-23mila). In netto calo i disoccupati (-180mila unità) ma in forte crescita anche gli inattivi (+126mila), a conferma dell’incrocio tra i due bacini. Il dato sugli ultracinquantenni e i contratti a termine emerge ancora più chiaramente nell’analisi su base annuale. Rispetto a settembre 2017, l’occupazione è cresciuta dello 0,9% (+207mila unità). Ma quasi tutto l’aumento ha interessato i lavoratori a termine (+368mila) e gli over 50 (+333mila), mentre i lavoratori stabili e i 35-49 enni sono diminuiti in misura significativa (rispettivamente -184mila e -154mila).

Previsioni sul futuro l’Istat non ne fa.

Tuttavia il dato sul Prodotto interno lordo – che nel terzo trimestre non ha registrato alcuna crescita dopo oltre tre anni di costante espansione – indica un’economia stagnante, come confermano anche i dati sull’inflazione. Ma in un Paese che non cresce non si genera lavoro. La manovra economica del governo scommette su tassi di crescita che per quasi tutti gli osservatori risultano a dir poco ottimistici, tanto più alla luce dell’ultima rilevazione Istat. E poi bisognerà verificare in concreto l’impatto delle nuove norme specifiche in materia di contratti. A novembre entra a regime il “decreto dignità” che punta a diminuire drasticamente il numero dei contratti a termine, fissando tutta una serie di limitazioni. Ma allo stesso tempo il decreto fiscale introduce una tassazione molto favorevole per le partite Iva al di sotto dei 65mila euro annui.

L’effetto combinato di queste due misure rischia di essere un ritorno diffuso alle finte partite Iva con cui in passato venivano aggirati i vincoli e i limiti dei contratti a tempo determinato.

Dal mondo delle imprese sane è già venuto un allarme in questo senso.

L’esplosione abnorme dei contratti a termine è avvenuta all’ombra del Jobs Act, che non è riuscito a raggiungere l’obiettivo dichiarato di una massiccia stabilizzazione e tuttavia ha contribuito a ridurre fortemente le finte partite Iva, assorbite dal boom del tempo determinato. Il passaggio inverso, ora, sarebbe veramente nefasto, soprattutto per i più giovani.

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