Processo Cappato: prendersi cura, non agevolare la morte

Se una persona pensa di farla finita con la sua vita, vuol dire che sta soffrendo, che sta vivendo un dramma, che non riesce a trovare soluzione ai suoi problemi, che ha bisogno di aiuto vero e di condivisione per superare o sopportare le sue difficoltà. Non certo di qualcuno che si limiti a dirgli: "Non preoccuparti, ti aiuto io ad essere libero (cioè 'a morire', 'a suicidarti')"!

La recente vicenda giudiziaria di Marco Cappato, esponente dei Radicali e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, avanzando secondo prassi, sembra non riservare grandi sorprese. In effetti, passo dopo passo, si sta giungendo lì dove l’imputato stesso voleva arrivare. Per lui, infatti, autodenunciatosi alla magistratura per aver accompagnato Fabiano Antoniani (noto come dj Fabo) in una clinica svizzera a morire col suicidio assistito (27 febbraio 2017), i giudici del processo a suo carico hanno sancito la non colpevolezza relativamente all’accusa di aver rafforzato il proposito suicidiario di dj Fabo; poi, in merito al reato di aiuto al suicidio (sancito dall’art. 580 del codice penale), hanno sollevato davanti alla Consulta dubbio di legittimità costituzionale su di esso, particolarmente per la parte in cui “non esclude la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita lesive del suo diritto alla dignità”. In altre parole, aiutare concretamente un aspirante suicida, purché non se ne influenzi la volontà, nella visione di questi giudici – come nelle rivendicazioni di Cappato e dei gruppi che rappresenta – non dovrebbe affatto costituire reato, ma anzi un diritto da riconoscere e tutelare. Vedremo quali saranno in merito le conclusioni della Corte Costituzionale.

Nell’attesa, ci sia consentita qualche considerazione più in generale. Al di là dei chiarimenti giuridico-normativi, infatti, è indubbio che questa faccenda ponga importanti interrogativi tanto per la coscienza dei singoli quanto per la comunità civica intera.

Il convincimento che aiutare fattivamente chi vuole suicidarsi a realizzare il suo intento, a patto di non influenzarne la volontà, sia un atto giusto e dovuto, significa inequivocabilmente voler promuovere una società incentrata su un unico asse portante: l’assolutizzazione della libertà individuale.

Al singolo individuo deve essere garantita la libera autodeterminazione della propria vita, con l’unico limite del rispetto della libertà altrui. Non interessano i contenuti e le finalità di questa libertà, essa sembra valere per se stessa, come fine ultimo, indipendentemente dai suoi contenuti o da ulteriori finalità. La si potrebbe quindi definire una libertà “da”, non certo una libertà “per”. Un tipo di libertà che si esprime in modo più eclatante nelle scelte ultimative, come ad esempio decidere il momento e la modalità della propria morte, anche ricorrendo al suicidio. Di conseguenza, in questa prospettiva, aiutare qualcuno a realizzare un gesto di “libertà estrema” non può che essere un valore.

Ma questa visione di libertà – a nostro avviso distorta e riduttiva – sembra dimenticare completamente che ogni scelta, oltre a realizzare la propria libertà, nasce da un vissuto, da una storia concreta, da una persona. E se una persona pensa di farla finita con la sua vita, vuol dire che sta soffrendo, che sta vivendo un dramma, che non riesce a trovare soluzione ai suoi problemi, che ha bisogno di aiuto vero e di condivisione per superare o sopportare le sue difficoltà. Non certo di qualcuno che si limiti a dirgli: “Non preoccuparti, ti aiuto io ad essere libero (cioè ‘a morire’, ‘a suicidarti’)”! La vera questione, insomma, non è essere liberi da vincoli formali per poter accedere alla morte, ma poter trovare risposte autentiche ai propri bisogni reali! E quando non ce la facciamo da soli, in una comunità, abbiamo diritto di aspettarci aiuto e condivisione da parte degli altri. Questo dovrebbe essere il vero asse portante di una società che si definisca civile: una fattiva solidarietà reciproca (con un’attenzione maggiore verso i soggetti più fragili), fondata sul riconoscimento di ciascuna persona vivente come parte del bene comune, oltre che come bene in se stessa. Perciò,

chi pensa di essere un paladino della libertà aiutando qualcuno a procurarsi la morte, dimentica completamente che quella persona nella sofferenza vale molto più della sua libertà di morire;

essa, infatti, è anche un bene per la comunità intera. E la comunità ha il dovere inderogabile di prendersene cura, nella misura delle sue effettive necessità, non di liberarsene agevolandone la morte. È questo il senso più profondo che soggiace all’attuale art. 580 del Codice penale. Dovrebbero ricordarlo anche i giudici che ne hanno messo in dubbio la legittimità costituzionale. Speriamo almeno che se ne ricordi la Consulta. E’ chiaro, quindi, che non si tratta solo di attendere una mera sentenza giuridica; al contrario, la posta in gioco è molto più alta: che tipo di società e di relazioni umane vogliamo costruire e vivere?

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