Nessun epitaffio per Totò Riina

Il 9 maggio del 1993, era uno splendido tramonto nella valle dei Templi, sotto Agrigento. E Giovanni Paolo II tuonò parole indimenticabili, dopo avere ricordato il comandamento di Dio, "non uccidere!": "lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio". Riina, che era appena stato arrestato, non sembra abbia ascoltato l’appello, a quanto è dato sapere

È uscito male di scena, il capo dei capi, molto male. Dal basso del suo carico di condanne, una carriera criminale che ha insanguinato l’Italia, in particolare nel delicatissimo passaggio della fine del secolo scorso. Nessun epitaffio, se non per ricordare a chi non ne ha seguito direttamente le cronache, o a chi le avesse dimenticate, il cumulo dei suoi crimini. Né ci appassiona il dibattito sulla sua “successione”. O sui tanti misteri, non ultimo quello della sua stessa cattura, il 15 gennaio 1993.
L’uscita di scena di Salvatore Riina, Totò u curto, la sua figura sfigurata, è un evento nella misura in cui è la spia dei danni persistenti, profondi, della mafia, o, più esattamente delle mafie, su cui riflettere.

Già lo avevamo visto ricordando i venticinque anni dei due paralleli assassinii di Falcone e Borsellino, ordinati proprio da Riina. La mafia non ha giustificazioni, uccide.
Il 9 maggio del 1993, era uno splendido tramonto nella valle dei Templi, sotto Agrigento. E Giovanni Paolo II tuonò parole indimenticabili, dopo avere ricordato il comandamento di Dio, “non uccidere!”: “Lo dico ai responsabili: convertitevi, una volta verrà il giudizio di Dio”. Riina, che era appena stato arrestato, non sembra abbia ascoltato l’appello, a quanto è dato sapere.
Ecco il punto, per riprendere le parole di questo grande della storia del mondo contemporaneo: la contrapposizione, netta, tra una civiltà di morte e una civiltà della vita.
Vale per la mafia tradizionale, quella agraria da cui Riina è nato, vale per le mafie dei colletti bianchi, verso cui è evoluta, vale per le mafie “trapiantate”, ad Ostia, nell’Italia del nord, quelle dei vari gruppi etnici. Vale anche per le mafie apparentemente di serie “b”, quelle che scivolano via nei comportamenti quotidiani: se è vero che la preside del liceo Virgilio di Roma, uno dei meglio frequentati della Capitale, ha denunciato un cima “intimidatorio e mafioso”, perpetrato da ragazzi di famiglie “bene”.

Forse allora bisogna proprio partire da qui, dalla violenza ordinaria nei rapporti “brevi” che tendiamo a scusare, a minimizzare, che invece ci portano tutti ad introiettare violenza e sopraffazione. Le radici della mafia, di tutte le mafie, sono nella violenza e nell’ignoranza. Che credevamo di avere estirpate, ma si riaffacciano prepotenti, a caratterizzare la disgregazione del tessuto sociale, i processi di “de socializzazione”. L’unica legge che rimane quando non si rispetta la legge è la legge del più forte. Non è un gioco di parole. È un processo sociale ormai evidente. È il brodo di cultura della mafia, dei comportamenti mafiosi.

A quel grido di Giovanni Paolo II, “convertitevi”, papa Francesco sta dando tante, tantissime prospettive pratiche, anche proprio nei rapporti “brevi”, per la vita quotidiana. Sta indicando dei percorsi, che diventano così percorsi di speranza. Tanto più ardui quanto più passa il tempo e si radica l’assuefazione. Ma proprio per questo sempre più urgenti.

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