Non solo Alitalia. Tiraboschi (economista): “Le crisi aziendali sono tutt’altro che concluse”

Non c'è solo l'ex compagnia di bandiera in sofferenza: i numeri "dicono di molti più lavoratori in difficoltà", ha ricordato il segretario generale della Cei presentando il Messaggio dei vescovi per il 1° maggio.  L'economista Michele Tiraboschi: "Occorre investire soprattutto sulle persone, e sulla generazione che oggi è all’interno di percorsi di formazione e che si sta affacciando sul mercato del lavoro", con "una prospettiva di lungo periodo"

Giornate calde per Alitalia, dopo la nomina dei tre commissari chiamati a gestire la vendita (o il declino) della compagnia con un “prestito ponte” da 600 milioni di euro per non lasciare a terra gli aerei (e i 4,9 milioni di passeggeri che hanno già comprato il biglietto). Ma in gioco c’è anche il destino di 20.000 lavoratori, tra i dipendenti dell’azienda e quanti lavorano nell’indotto. Una situazione incandescente, ma – affrontando il tema del lavoro e della sua crisi – “parlare solo di Alitalia sarebbe riduttivo: le percentuali dicono di molti più lavoratori in difficoltà”, ha ricordato il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, presentando nelle settimane scorse il Messaggio dei vescovi per il 1° maggio e le “Linee” in vista della Settimana sociale di Cagliari, che avrà a tema il “lavoro che vogliamo”. Con Michele Tiraboschi, economista e docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, rileggiamo dunque la vicenda dell’ex compagnia di bandiera allargando lo sguardo al Paese e alle tante altre situazioni di crisi.

La crisi di Alitalia mette a rischio decine di migliaia di posti di lavoro. Si può interpretare come una delle tante crisi di aziende italiane? E, dunque, la crisi non è finita?

Sicuramente la crisi Alitalia s’inserisce in un periodo storico in cui le crisi aziendali sono tutt’altro che concluse, ma il caso è più originale e viene da lontano. Più che l’impatto della crisi economica, infatti, Alitalia paga la forte ingerenza della politica e anche nuovi modelli di business sviluppati dai concorrenti rispetto ai quali non ha avuto la capacità, e la volontà, di adattarsi. Scelte manageriali sbagliate e reiterate (pensiamo solo a Fiumicino come centro dell’hub anziché Malpensa), incapacità di saper investire al meglio gli oltre 7 miliardi di soldi pubblici iniettati a più riprese nelle casse e altre logiche lontane dall’efficienza di mercato hanno portato a questa situazione. E la scelta dei lavoratori sembra essere stata quella di chi non vuole che a pagare per tali decisioni siano i lavoratori stessi.

Pirelli è andata alla Cina (ChemChina), Fiat ha “espatriato” tra Olanda e Gran Bretagna, Ducati oggi è tedesca, marchi della moda e dell’alimentazione sono finiti all’estero… Prosegue la fuga o la scomparsa delle aziende dal nostro Paese. È un impoverimento per la nostra economia o una conseguenza inevitabile della globalizzazione?

La globalizzazione è un dato di fatto, e chi ha grossi capitali oggi investe in altre nazioni e in altre economie alla ricerca di aziende di valore, magari in situazioni difficili.

Da un lato questa è la prova del valore di tante imprese italiane, dall’altro il segnale che la classe imprenditoriale italiana oggi fatica a fare investimenti in grado di mantenere sul mercato le proprie aziende.

Questo però non significa per forza un impoverimento della nostra economia, spesso la presenza di proprietari stranieri può favorire l’innesto di pratiche di management innovative, proprie di altri modelli. Pensiamo solo, tra i casi citati, a Ducati e a tutta l’interessantissima sperimentazione sull’alternanza scuola-lavoro, possibile anche per la matrice tedesca della pratica.

Eppure quale anno fa, nel 2008, in nome dell’italianità di Alitalia venne rifiutata l’alleanza con Air France-Klm. Ha senso parlare oggi di “compagnia di bandiera”?

Se parlare di compagnia di bandiera diventa un mantra ideologico no, non ha senso. Ma soprattutto parlano i fatti, le possibilità di tenere in vita la compagnia di bandiera ci sono state, e sono state particolarmente onerose per la finanza pubblica. Non ci si è riusciti, quindi credo che ormai le opportunità siano concluse. A ciò si aggiunge il fatto che anche il mercato di riferimento è sempre di più globalizzato e organizzato per grossi gruppi e reti di compagnie, per cui la priorità di una compagnia di bandiera sembra essere meno importante.

In alcuni casi vediamo l’intervento statale sotto forma di prestiti, come il “prestito ponte” di Alitalia, in tanti altri casi no. Prendiamo l’esempio delle banche: i bond per Montepaschi, nulla per le banche venete e le 4 poste in liquidazione nel 2015 (poi rinate come “nuove” e ora cedute a Ubi e Bper). È una disparità di trattamento o in gioco ci sono interessi diversi?

È una conferma di quanto dicevo in relazione all’eccessiva ingerenza della politica in decisioni economiche che sollevano aspettative dell’opinione pubblica e degli elettori. In questo, ovviamente, a essere penalizzate sono soprattutto le piccole imprese.

A suo parere, che ne sarà del “prestito ponte”? Alcuni commentatori l’hanno definito a fondo perduto.

Dobbiamo augurarci che parallelamente al prestito si verifichino le condizioni per un investimento privato in Alitalia, in modo da poterlo restituire.

D’altra parte pensare di chiudere da un giorno all’altro i battenti, lasciando a terra le persone che avevano già programmato viaggi e acquistato biglietti era veramente complesso.

Il rischio d’insolvibilità del prestito esiste, ma il fatto che si sia stati chiari sul fatto che sarà l’ultimo è già un passo avanti.

A far le spese, alla fine, sono sempre i lavoratori. I dati su occupazione e disoccupati in Italia sono altalenanti, ma ancora niente affatto confortanti. Come immagina i prossimi anni? Quali vie d’uscita?

La situazione è ancora molto complessa. Siamo di fronte a un mercato del lavoro italiano in una fase di stagnazione, con piccoli e sporadici segnali positivi che però non sono assolutamente sufficienti a riportarci ai livelli pre-crisi, che già erano particolarmente bassi rispetto allo scenario europeo e internazionale. Le previsioni dei prossimi anni ci dicono che la situazione non migliorerà particolarmente, e soprattutto che fenomeni come l’invecchiamento della popolazione e lo sviluppo tecnologico metteranno a dura prova la tenuta di un sistema sociale già difficilmente sostenibile.

Occorre investire soprattutto sulle persone, e sulla generazione che oggi è all’interno di percorsi di formazione e che si sta affacciando sul mercato del lavoro. Serve una prospettiva di lungo periodo, non è possibile affrontare cambiamenti epocali con interventi di breve respiro. 

 

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