Primo Levi: l’operaio non si arrende “davanti alle giornate rovescie”

La professione di chimico lo aveva aiutato in alcune occasioni, e lo aiutò ad analizzare i comportamenti dei carnefici, di alcuni ebrei come lui che si erano prestati a fare da sorveglianti su altri ebrei, dei politici del dopo Aushwitz, di quanti pensavano che i campi fossero stato un incidente della storia e di quanti addirittura negavano l’olocausto. Nei suoi racconti e nei romanzi la chimica torna spesso, come se tornare alla sua vocazione in qualche modo fosse un motivo di identità e di analisi di un mondo, che dopo quei campi sembrava non avere né senso né tantomeno un ordine

L’ undici aprile di trent’anni fa Primo Levi veniva trovato morto alla base delle scale della sua abitazione a Torino. Anche la sua scomparsa scatenò paradossalmente una ridda di polemiche: suicidio o morte accidentale? Le polemiche c’erano state anche con lui in vita, perché la sua esperienza di partigiano e poi di deportato ad Auschwitz, alcuni suoi silenzi su quelle vicende, il rifiuto dell’editoria di sinistra, Einaudi, ad esempio, di pubblicare il suo “diario” di prigionia, “Se questo è un uomo”, avevano innescato una reazione a catena:

si può sacrificare la verità – una verità che apriva veri e propri crateri nella storia, nella politica e nell’anima di tanti – sull’altare della ricerca di pacificazione?

Alcuni a sinistra avevano detto di sì, un sì certamente doloroso, ma sempre un sì: “Se questo è un uomo” sarebbe stato stampato da un piccolo editore, De Silva. Levi però non disarmò, perché aveva da parte sua un’arma che gli permetteva di vedere le cose non solo dal punto di vista personale, ma anche di sezionarle e scomporle, perché faceva, di professione il chimico. Lavoro che lo aveva aiutato in alcune occasioni, e che lo aiutò ad analizzare i comportamenti dei carnefici, di alcuni ebrei come lui che si erano prestati a fare da sorveglianti su altri ebrei, dei politici del dopo Aushwitz, di quanti pensavano che i campi fossero stato un incidente della storia e di quanti addirittura negavano l’olocausto. Nei suoi racconti e nei romanzi la chimica torna spesso, come se tornare alla sua vocazione in qualche modo fosse un motivo di identità e di analisi di un mondo, che dopo quei campi sembrava non avere né senso né tantomeno un ordine. E poi siamo sempre lì:

noi ne parliamo placidamente seduti, con il senno del poi, lui c’era stato dentro, c’era stato portato dentro vagoni superaffollati e maleodoranti e poi lì, aveva non solo capito, ma provato cosa significasse quella che poi un’altra ebrea, Hannah Arendt avrebbe chiamato la banalità del male. Sarà stato banale, ma accadeva.

Quello che mai si sarebbe potuto pensare, tantomeno nella Germania di Goethe, il macello, il senza senso, stava accadendo a quelli accanto a lui e a lui stesso. Qualcosa gli impedì di non scendere negli abissi del nulla, come ebbe a scrivere in un romanzo che apparentemente non tratta di quelle esperienze, “La chiave a stella”. La chimica è simile alla letteratura, hanno a che fare con un mondo che diventa reale, e si contrappone all’incubo del disordine, e hanno a loro volta qualcosa in comune con l’arte dell’operaio specializzato, che costruisce gru e ponti:

“Il vantaggio di potersi misurare, del non dipendere da altri nel misurarsi, nello specchiarsi nella propria opera”.

La creazione di mondi può aiutare a dimenticare per un po’ un mondo demoniaco che per un attimo ci ha trattenuto, ed è per questo che molti dubitano del suo suicidio: l’operaio non si arrende “davanti alle giornate rovescie”, così come lo scrittore a cui il suo mestiere “concede (di rado, ma pure concede) qualche momento di creazione; come quando in un circuito spento ad un tratto passa corrente, ed allora una lampada si accende”.

Se Levi non riusciva più a credere in un Dio a causa di quello che aveva visto fare da uomini ad altri uomini, gli era rimasta la speranza che il fare e il dire tornassero finalmente ad avere un senso, quello della vita.

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