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Ai confini dell’Europa: in Kirghizistan la piccola comunità di mille cattolici

Tre parrocchie, in tre zone diverse del Paese (Bishkek, Jalal-Abad e Talas), alcune suore francescane e sei sacerdoti: due polacchi, uno sloveno, due autoctoni, figli di famiglie esiliate da Stalin nel 1941 in Kazakistan, dove sono cresciuti e diventati sacerdoti, e il gesuita texano Anthony Corcoran nominato amministratore apostolico di questa fetta di Chiesa alla fine di agosto 2017 da Papa Francesco

All’incontro tra Europa e Asia c’è il Kirghizistan, Paese di 5,3 milioni di abitanti, una natura bellissima ma difficile da dominare, e una storia sofferta, prima per il suo essere un crocevia di popoli, conteso da interessi diversi – cinesi, turchi, arabi – e poi nel ‘900 per essere stata acquisita dall’impero russo e quindi passata all’Urss comunista. In questa terra fatta di tanto freddo, montagne e iurte, vive anche una comunità cattolica, tra i 600 e i 1.000 fedeli in tutto il Paese, una di quelle Chiese piccole e ai margini, che Papa Francesco tanto ama. Tre parrocchie, in tre zone diverse del Paese (Bishkek, Jalal-Abad e Talas), alcune suore francescane e sei sacerdoti: due polacchi, uno sloveno, due autoctoni, figli di famiglie esiliate da Stalin nel 1941 in Kazakistan, dove sono cresciuti e diventati sacerdoti, e il gesuita texano Anthony Corcoran nominato amministratore apostolico di questa fetta di Chiesa alla fine di agosto 2017 da Papa Francesco. Mons. Corcoran è da più di vent’anni in Russia, e prima di arrivare a Bishkek era in Siberia. Il Sir lo ha incontrato durante una trasferta a Roma.

Che cosa comporta essere pastore di questa Chiesa così piccola?
La cosa più importante è l’accompagnamento pastorale, sacramentale e spirituale. Se sono in città, in parrocchia, la mia è una normale vita di un parroco in una città, quindi c’è la messa, la preghiera personale, la preparazione dei sacramenti, gli eventi della città. Ma se sono in viaggio per visitare i cattolici di altre comunità è un po’ diverso perché vado a incontrarli dove sono e celebro la messa con loro.

Incontrare le persone è un’esperienza straordinaria: le nonne che hanno custodito la fede durante il comunismo, è incredibile che cosa hanno vissuto!

O i bambini cattolici che crescono in un contesto a maggioranza musulmano. È incoraggiante. È una fonte di gioia essere il pastore di queste persone. Nelle parrocchie abbiamo anche qualche attività caritativa per cercare di dare una risposta ad alcuni bisogni fondamentali. Siamo organizzati autonomamente per portare avanti queste attività ma siamo in dialogo con la Caritas per vedere se possiamo cominciare un’attività più strutturata.

Evangelizzare in quella terra ha, o almeno ha avuto, tratti particolari?
Per decenni i cattolici hanno vissuto clandestinamente e sotto le persecuzioni, ma la fede è comunque stata tramandata. All’inizio del mio mandato nell’ex-Urss mi affascinava incontrare le nonne, i loro figli o nipoti che loro stesse avevano battezzato, ma che non avevano mai incontrato un sacerdote, non erano mai andati a messa, mai aperto una bibbia, eppure si consideravano cattolici. Chiedevo sempre che cosa significasse per loro essere cattolici, e mi davano sempre risposte diverse, con tre elementi in comune: uno era il segno della croce e quando me lo mostravano, c’è così tanta devozione in quel gesto! Un secondo elemento era che tutti sapevano qualcosa su Gesù, la sua nascita, morte e risurrezione e la sua nuova venuta nella gloria. E conoscere questo, mi raccontavano alcune nonne, aveva cambiato il loro modo di fare la spesa, stare sull’autobus; perché altrimenti sarebbe sembrato di tradire questo messaggio. E la terza cosa era il rosario: anche se molti non lo avevano mai avuto, pregavano il rosario. In un’occasione invece avevo incontrato dei bambini che avevano il rosario ma non sapevano l’Ave Maria e pregavano insieme seduti in cerchio, a modo loro. Ed era interessante come si sostenevano reciprocamente, o come si salutavano riconoscendosi nella loro fede in Gesù.

Se lo aspettava di essere mandato in Kirghizistan?
Sapevo che c’era una possibilità, ma certo non pensavo. Ero stato assegnato a lavorare in una parrocchia e in una scuola in Siberia. Ma per vent’anni ero andato in visita in Kirghizistan, conoscevo i cattolici e ho sempre amato il Paese: la Chiesa è molto semplice lì e come sacerdote ho sempre amato la possibilità di servire la Chiesa in modo semplice.

Oltre l’80% della popolazione è musulmana: come funziona la convivenza?
Ci sono relazioni molto buone con le altre comunità religiose e denominazioni cristiane. Abbiamo una commissione che si raduna regolarmente e discutiamo insieme.

Nel nostro Paese si lavora insieme guardando a ciò che abbiamo in comune piuttosto che a ciò che ci divide, anche perché le domande dell’umanità sono le stesse per ogni religione.

E quindi c’è un bel clima di cooperazione. Grazie a Dio fino ad ora non ci sono stati episodi spiacevoli. Certo è una società come tante, in cui oggi ci si pone il problema del poter stare insieme in libertà e della sicurezza.

Non ci sono problemi quanto alla libertà religiosa?
È un Paese particolare rispetto alla regione in cui è collocato. E fino ad ora non ci sono stati problemi significativi o incidenti particolarmente gravi. Probabilmente perché è un Paese più piccolo, dove hanno sempre convissuto nazionalità diverse: i cristiani sono lì da secoli, esattamente come i musulmani. E io penso che sia il desiderio della gente di avere questo genere di apertura e cooperazione. Per quel che riguarda la Chiesa cattolica, siamo minima come presenza e mi sembra abbiamo anche una buona reputazione, nel senso di non rappresentare una minaccia per il Paese.

Guardando dalla sua prospettiva, che cosa è veramente essenziale per la vita della Chiesa? Qual è la domanda bruciante oggi?
La Chiesa è una famiglia che vive in parti diverse del mondo. Ci sono aspetti che sono importanti per chi vive in una parte del mondo e per altri lo sono meno. Dal mio punto di vista

mi sembra cruciale la domanda su che cosa significa essere cristiani nel contesto in cui viviamo.

E forse la stessa domanda si può porre dappertutto. E questo è il compito che come Chiesa cerchiamo di vivere anche in Kirghizistan.

Che cosa è speciale del suo essere lì?
Sono le persone in mezzo a cui sei chiamato a stare che ti fanno tirare fuori il tuo sacerdozio, ti fanno diventare sacerdote. Questa è la consolazione e la sfida. Al di là dei miei limiti, mi rendo conto che c’è santità nella Chiesa, ma non ci sono angeli. Sento come mia sfida sostenere e fare in modo che le persone si sviluppino, crescano, fioriscano. Mi piace anche pensare che la mia testimonianza sia un segno, non per merito mio, ma per il fatto che attraverso di me è la Chiesa che si prende cura e manda persone a prendersi cura di queste comunità. Io amo stare lì.

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