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Balcani occidentali: sei Paesi in (lenta) marcia verso l’Ue. Molti gli ostacoli sulla strada per Bruxelles

Quattro candidati ufficiali all'adesione (Montenegro, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Albania, Serbia) e due potenziali candidati (Bosnia-Erzegovina, Kosovo): il futuro di questi Stati, e dei rispettivi popoli, dipende anche dall'aggancio con l'Unione europea. Gli euroentusiasti però cominciano a perdere un po' di speranza, mentre i nazionalismi tendono a creare muri. L'importanza dei partenariati transfrontalieri sostenuti dell'Unione

I Balcani occidentali in questo momento rappresentano la parte più problematica dell’Europa, fatta eccezione per l’Ucraina. È vero che tutti e sei i Paesi dei Balcani occidentali – ossia i quattro candidati ufficiali (Montenegro, ex Repubblica jugoslava di Macedonia, Albania, Serbia) e i due potenziali candidati (Bosnia-Erzegovina, Kosovo) – dopo l’adesione della Croazia nel 2013, si trovano sulla strada di una graduale integrazione nell’Ue, tuttavia questo processo oggi non sembra soddisfare abbastanza né l’una né l’altra parte coinvolte in questo partenariato.
Da un lato c’è l’Ue per nulla soddisfatta dei risultati ottenuti fino ad oggi in maniera evidentemente troppo lenta e quasi sempre come risultato di una palese pressione da parte di Bruxelles, per non dire di una vera e propria minaccia o addirittura, in alcuni casi, persino di un ultimatum. Dall’altro lato c’è la parte civile e intellettuale della società dei Paesi di questa regione, quella cioè “euroentusiasta”, che sembra aver perso gran parte della pazienza e della speranza che inizialmente aveva riposto nella capacità e volontà delle rispettive élites politiche di raggiungere finalmente la tanto agognata promessa di una “vita migliore”, qualsiasi cosa essa volesse dire. Gli euroentusiasti considerano anche troppo burocratico e “poco sensibile” l’atteggiamento di certi organi e rappresentanti dell’Ue che, a loro dire, ogni tanto guardano a questa regione “dall’alto”, senza la sincera volontà di entrare a far parte di un contesto estremamente complesso come quello dei Balcani. Costoro sembrano essersi più volte dimostrati poco inclini a cogliere a tempo opportuno la vera essenza del problema o, comunque, il momento e il modo giusti per sostenere, con reciproca soddisfazione, lo sviluppo democratico ed economico dei Balcani occidentali.
È altresì vero che dall’esterno non è mai stato facile – e non lo è ancora – comprendere la reale radice dei problemi che risiedono nel passato e che sono tuttora irrisolti, alimentando ancora stereotipi e pregiudizi nei confronti di questi Paesi e di questi popoli.La crisi economica globale, la Brexit, il crollo economico della Grecia, l’Isis, i migranti, il rafforzamento delle forze politiche antieuropee, ovvero nazionalistiche e centrifughe nei vecchi e nei nuovi Paesi membri dell’Unione, la situazione in Ucraina: sono tutti fattori che minacciano di animare ancora una volta le forze “euroscettiche”, populiste e di destra dei Paesi balcanici che, vent’anni fa, li hanno già condotti al più terribile e sanguinoso conflitto dell’Europa del secondo dopoguerra e che oggi cercano il sostegno degli Stati e delle forze politiche dei Paesi “fratelli” slavi e ortodossi.
Ma che cosa caratterizza oggi la scena politica di questi Stati? Il Montenegro – con più di due terzi dei capitoli negoziali avviati nel processo di adesione all’Ue, la Nato alle porte che lo porterà ad essere il ventinovesimo membro dell’Alleanza – nell’ottobre 2016, nel giorno delle elezioni parlamentari, ha subito un tentativo di golpe da parte di quei partiti politici che si oppongono al suo ingresso nell’Alleanza, sostenuti, per quanto se ne sappia in questo momento, dai servizi segreti russi. Nella ex Repubblica jugoslava di Macedonia, oltre al problema della denominazione del Paese ancora irrisolto con la Grecia, la situazione politica negli ultimi mesi è tesa per i tentativi più volte falliti di formare un nuovo governo in seguito alle ultime elezioni anticipate che non hanno fatto che acuire gli attuali problemi nazionali e identitari tra le due maggiori etnie, quella macedone e quella albanese. La Serbia, che ha aperto i primi quattro capitoli, avviando così i negoziati di adesione, ha votato pochi giorni fa il nuovo presidente della Repubblica, ovvero l’attuale primo ministro che, sebbene abbia ottenuto la stragrande maggioranza dei voti, è ancora al centro delle proteste di coloro che in piazza denunciano molte irregolarità elettorali, nonostante la speranza che un politico di tale calibro sia l’unico capace di chiudere definitivamente in Serbia la questione dell’indipendenza del Kosovo. Il Kosovo, che non è ancora stato riconosciuto da cinque paesi dell’Ue (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia, Spagna) e da due della regione (Serbia, Bosnia-Erzegovina), non ha ancora risolto in Parlamento la questione relativa alla ratifica dell’Accordo sulla demarcazione dei confini con il Montenegro, condizione sine qua non per procedere alla liberalizzazione dei visti per i propri cittadini. L’integrazione sia del Kosovo che della Serbia nell’Ue rimane strettamente legata ai risultati delle loro relazioni e del loro dialogo bilaterale. Dal canto suo la Bosnia-Erzegovina manifesta in pieno tutti i difetti dell’Accordo di Dayton del 1995, da cui erano scaturite due entità che, in più di vent’anni, non si sono mai integrate e il cui già fragile equilibrio è sotto il giogo della minaccia serba di un referendum di separazione che dividerebbe il Paese in due. Infine l’Albania, che, unico tra questi paesi ad essere già membro della Nato, in questo momento sembra stia vivendo una situazione meno turbolenta degli altri malgrado la situazione economica in cui versa non sia affatto invidiabile.
Ebbene, l’Ue sta incoraggiando tutti questi Paesi, ovvero circa quindici milioni di persone, a collaborare reciprocamente mediante diversi programmi transfrontalieri, che costituirebbero una prima tappa parallela, per quanto non ufficiale, dell’integrazione europea.

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