Enrico Letta: “Serve un’Europa calda, sociale. Al servizio dei cittadini e dei perdenti della globalizzazione”

Appena nominato presidente del “Jacques Delors Institut”, l'ex presidente del Consiglio traccia un bilancio del cammino dell'integrazione, evidenziandone le enormi difficoltà attuali e provando a individuare una "via d'uscita". La quale, a suo avviso, passa attraverso un rilancio politico, la solidarietà fra gli Stati e la concreta vicinanza ai problemi dei cittadini. Un messaggio per i giovani della Gmg: "Tenete alto lo sguardo, verso il mondo"

Enrico Letta, al centro, assieme all'équipe del “Jacques Delors Institut”, con sedi a Parigi e Berlino

“Quella dell’Europa è una crisi di crescita”. Ne è convinto Enrico Letta, europeista che non si rassegna ai nazionalismi che attraversano il Vecchio continente. Pisano, 50 anni il prossimo mese di agosto, l’infanzia a Strasburgo e poi, tornato in Italia, l’impegno nel Movimento studenti di Azione cattolica, Letta ha lasciato giusto un anno fa il Parlamento italiano, dopo un lungo percorso politico – nella Dc, quindi nel Partito popolare e poi nel Pd – e numerosi incarichi istituzionali: deputato, europarlamentare, più volte ministro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel secondo governo Prodi (2006-2008), e presidente del Consiglio dei ministri fra l’aprile 2013 e il febbraio 2014. In quell’anno assume la direzione della Scuola di affari internazionali dell’Institut d’Etudes politiques de Paris (Sciences-Po) e da pochi giorni è presidente del “Jacques Delors Institut”, think tank europeo. È inoltre segretario generale di Arel, Agenzia di ricerche e legislazione fondata da Beniamino Andreatta, con il quale Letta ha iniziato il suo percorso professionale e politico.

Dunque l’Europa è in una fase critica. Ma quali sono le radici profonde di questa parabola?
Come dicevo è una crisi di crescita. Mi spiego. Fino all’arrivo dell’euro nelle tasche dei cittadini, nel 2002, l’Ue era percepita come una opportunità, un valore aggiunto sotto diversi aspetti: per aver garantito la pace, quale solido riferimento democratico, per l’economia e lo sviluppo, per l’Erasmus… E quando i cittadini percepivano delle difficoltà, dei problemi irrisolti riguardanti la vita quotidiana, puntavano il dito contro il sindaco oppure verso il governo nazionale. Con l’euro, invece, il cittadino ha colto che l’Europa è fondamentale, ha poteri concreti e può influire sulla sua esistenza, nel bene e nel male. A questo punto anche l’Europa si è seduta sul banco degli imputati, accusata di mancanze e ritardi reali, ma pure di responsabilità che non le competono.

Colpe accresciute con la crisi economica?
Con la recessione, che abbiamo sperimentato a partire dal 2008, la disoccupazione e il senso di incertezza si sono diffusi, la qualità della vita è peggiorata per una vasta parte di popolazione europea. L’effetto è stato devastante. E mentre il sindaco o il governo possono essere “bocciati” dai cittadini, si è inteso che non si può fare lo stesso con l’Ue. Il circuito democratico che regola l’Europa comunitaria è avvertito come lontano dagli elettori e fuori da una dinamica di responsabilità diretta, benché essa possa assumere decisioni che toccano le nazioni, le famiglie, i lavoratori (si pensi a tutte le discussioni sull’austerità). Un’Europa, appunto, lontana, fredda. E aggiungerei un altro elemento…

Quale?
Accanto alla centralità dell’economia, ambito in cui l’Ue ha reali poteri, i temi fondamentali oggi, connessi a paure diffuse, sono la sicurezza, le migrazioni… Ma nei settori degli affari interni, della giustizia, delle stesse migrazioni o della difesa comune, l’Ue – è risaputo – non ha sostanzialmente voce in capitolo, perché gli Stati membri non le hanno assegnato poteri. Anche per tale ragione il cittadino è insoddisfatto e si allontana dall’Europa. Si aggiunga che spesso l’Unione diventa il capro espiatorio da parte dei leader politici nazionali che scaricano su Bruxelles le loro inadempienze o incapacità di agire, con un ulteriore effetto negativo sull’immagine dell’Europa. È, sotto certi aspetti, quanto successo di recente nel Regno Unito con il Brexit.

Da dove ripartire per far riprendere quota al progetto europeo?
Il rilancio a mio avviso non può che essere politico. Occorre rendersi conto che non basta rifarsi a una vaga “ideologia europeista” e non è sufficiente neppure la storia, pur importantissima, del processo di integrazione.

È necessario mostrare che l’Europa è utile, concreta, produce risultati

che vanno a favore dei nostri Paesi e della vita di ogni giorno. E, per questa ragione, le cessioni di sovranità all’Ue sono la sola maniera per recuperare la sovranità nazionale e la forza di ciascuno Stato. Inutile nascondersi: la globalizzazione, l’interdipendenza, il digitale hanno mutato gli scenari mondiali e noi ci siamo dentro. Per costruire il futuro dobbiamo misurarci con essi, non guardare indietro. Per fare un esempio, il peso economico della Cina trent’anni anni fa era del 2% su scala mondiale, oggi è del 16%; quello dell’Europa è sceso dal 30 al 18%! L’eurocentrismo è finito da un pezzo: gli Stati europei per riprendere peso e voce politica su scala globale devono stare insieme, in una Ue unita e rafforzata. Invece i messaggi di Marine Le Pen e di Nigel Farage parlano del recupero di una grandezza nazionalista che non esiste più, sono drammaticamente passatisti e tendono a isolare il proprio Paese.

Ma l’Europa resta fredda, lontana, come dice lei…
Infatti occorre che l’Ue produca risultati, convincendo che è al servizio dei cittadini e dei “perdenti” della globalizzazione, che non sono solo poveri, emarginati o migranti, ma è il ceto medio, il cittadino che lavora e quello che cerca occupazione, le famiglie, i giovani, i pensionati. Serve un’Europa “calda”, vicina, un’Europa “sociale”, come quella per cui si è sempre battuto Jacques Delors.

A Cracovia ha preso avvio la Gmg, con centinaia di migliaia di giovani da tutta Europa e dal mondo intero. Se potesse rivolgere loro un pensiero?
Suggerirei di tenere lo sguardo alto, verso il mondo. Con una visione prospettica, rivolta al futuro, carica di speranza e, al contempo, di responsabilità. In questo senso

la Giornata mondiale della gioventù è una grande opportunità.

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