Nel quartiere modello della città della Mole la “povertà grigia”

Viaggio fra la popolazione della Falchera Vecchia, dove negli anni '50 tutto era giovane e costruito sul modello delle famiglie con bambini. Ora è un mondo di soli pensionati

Il quartiere oggi è quasi un gioiello: case di tre piani che si nascondono nel verde di alberi d’alto fusto; gli stessi nomi delle strade parlano di piante: Abeti, Querce, Pioppi… sembra davvero un pezzetto di "città ideale" quella pensata e realizzata dall’urbanista Giovanni Astengo, autore del progetto, uno dei più riusciti del grande piano "Ina-Casa". Qui gli abitanti sono invecchiati insieme con le case: oggi la popolazione della Falchera Vecchia è fatta soprattutto di pensionati, che vivono qui fin dalla costruzione del quartiere. La crisi adesso è fatta soprattutto di quella "povertà grigia" che sociologi e Caritas denunciano come uno dei segnali più inquietanti del cambiamento.
Eleonora (il nome è di fantasia) è una pensionata "giovane", appena oltre i sessant’anni. È stata "convinta" ad andarsene dall’azienda dove aveva lavorato per tutta la vita con una pensione anticipata (non un prepensionamento): in futuro non ci saranno gli aggiornamenti Istat dell’inflazione, come non c’è stato per lei alcun incentivo né ammortizzatore sociale. "Mi sentivo ormai vecchia, e senza prospettive. Ho seguito con entusiasmo e senza difficoltà gli aggiornamenti delle nuove tecnologie che sono stati introdotti nella nostra azienda; ma poi mi sono accorta che ai cambiamenti di tecnologia corrispondeva anche un peggioramento dei rapporti umani e aziendali: i dirigenti volevano solo i giovani, perché sono più malleabili, perché costano meno. L’esperienza, ci dicevano, non serve a niente". Così Eleonora decide di lasciare appena può. Alle ragioni professionali si sommano le questioni personali e familiari: è sola, vive con una mamma molto anziana; la sorella, che abita a una decina di chilometri, deve provvedere al marito invalido grave. I conti di Eleonora, rifatti tante volte con grande attenzione, erano giusti: con la pensione sua e quella di vecchiaia della madre si poteva tirare avanti, la casa era stata riscattata già anni fa. "Mi immaginavo, andando in pensione, di riconquistare tempo per la mia famiglia, e per me". È bastato invece un incidente banalissimo a far vacillare tutto: una caduta per strada, con le borse della spesa; una frattura impegnativa alla gamba destra, una distorsione al piede (a Torino, fino a qualche mese fa, non c’erano più i soldi per riparare le buche sulle strade e i marciapiedi). "I soldi sono diventati subito un problema, perché non potevo più guidare e dovevo spostarmi in ambulanza o in taxi per le visite. Ho dovuto chiamare il fisioterapista a casa, con costi ben al di là di quelli del Servizio Sanitario. Ma poi mi sono accorta che il vero problema era un altro". Con qualche economia, magari toccando un po’ dei risparmi, il tempo della malattia sarebbe passato e, tornata la possibilità di movimento, anche il resto sarebbe andato a posto.
"Ho scoperto invece la grande solitudine in cui mi sono venuta a trovare. Senza potersi muovere liberamente ogni cosa della giornata diventa impegnativa e faticosa. Mia madre non può più, da anni, uscire di casa neanche per fare la spesa. Su mia sorella posso contare solo qualche ora alla settimana. E per il resto dobbiamo affidarci al buon cuore dei vicini, o pagare qualcuno perché vada a comprarci da mangiare". Dalle finestre si vedono i banchetti del mercato rionale: pochi metri, un muro che non si riesce a superare…
Una solitudine che si somma ad altre, più antiche: molti tra i residenti di Falchera sono esuli istriani, scappati via dalle bande di Tito dopo il 1945, quando quella terra, da un giorno all’altro, non fu più Italia. E oggi ricordano che la prima accoglienza ricevuta, come profughi, era fatta di fastidio, insofferenza, diffidenza: "Certo non si parlava tanto degli istriani come oggi si parla del popolo delle barche a Lampedusa – commenta con un po’ di amarezza Eleonora, che conosce bene la situazione -. Eppure quei profughi erano italiani, e avevano dovuto abbandonare tutto".
Il quartiere modello, l’oasi di verde, patisce di solitudine – una realtà che gli urbanisti non avevano previsto: negli anni ‘50 del secolo scorso la Falchera era un paese pieno di bambini, si dovevano costruire e inventare scuole ovunque; e i giovani, e le famiglie, erano un "motore sociale" formidabile: perché, ovviamente, insieme a case e scuole bisognava portare nel quartiere negozi e servizi, trasporti e opportunità di tempo libero. L’invecchiamento della popolazione sta rendendo vistosi, e più pesanti, gli effetti della crisi. E spinge verso le "periferie" sociali numeri sempre più imponenti di persone. Gente che magari riesce ad affrontare senza troppi danni le difficoltà economiche ma si scopre impotente, e fragile, di fronte all’abbandono sociale (per risolvere il quale non bastano le animazioni di strada, le feste, i mercatini domenicali…). E alla Falchera, almeno, le case sono quasi tutte abitate: dati statistici recenti hanno evidenziato che in Torino vi sono almeno 50mila alloggi vuoti e sfitti, anche se la pressione abitativa è fortissima: ma a non trovar casa sono i più poveri e gli immigrati stranieri perché – nelle condizioni attuali di mercato – molti proprietari sono obbligati a considerare più conveniente l’alloggio sfitto, piuttosto che imbarcarsi nelle incertezze di una locazione.
Popolazione che invecchia, case vuote, quartieri che risentono sempre più dell’abbandono. Il circolo perverso sembra non potersi spezzare: per questo a Torino si sente forte la necessità di ricominciare, di progettare un "modello di sviluppo" diverso, anche se la fabbrica non c’è più e non tornerà mai più con gli stessi numeri. L’arcivescovo Nosiglia ci sta provando con la proposta della "Agorà sociale". Marco Bonatti (20 giugno 2014)

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