Una porta da attraversare insieme (2)

Testo integrale in anticipazione al Sir

4. Sì, muovere la storia, muovendo innanzi tutto i cuori e le menti. Senza ciò resterebbe solo l’astrattezza di una proposta concepita a tavolino, per quanto indovinata e calzante essa possa essere. È a partire da questa precisa consapevolezza, che affonda le solide sue radici nella bimillenaria storia della Chiesa, che trova ragione la scelta pastorale strategicamente più significativa compiuta dalla Chiesa in Italia in questi ultimi anni e che – come noto – è stata individuata e proposta come prioritaria e qualificante il presente decennio pastorale: educare alla vita buona del Vangelo. Di "emergenza educativa", in verità, ha più volte parlato Benedetto XVI. Ma mi sia permesso, in proposito, un ricordo personale. Era la primavera del 2007 e da poco il Cardinal Bagnasco era stato chiamato dal Papa a presiedere la CEI. Ebbi l’occasione d’ascoltare una sua conversazione informale a un gruppo d’intellettuali cattolici nel contesto del Progetto culturale. Mi colpì come egli sottolineasse la centralità della sfida educativa, per la Chiesa e per la comunità civile. E colsi, da subito, la precipua rilevanza di questa attenzione che nel nuovo Presidente della CEI veniva certo dalla una sperimentata consuetudine con il mondo dei giovani e della scuola, ma che al tempo stesso felicemente veniva a dar forma di concretezza e indirizzo d’incisività al cammino che, lungo i decenni precedenti, aveva impegnato la Chiesa in Italia. Penso, dunque, non vi sia che da rallegrarsi se questa iniziale intuizione, forgiata al vaglio del discernimento collegiale e sapienziale dell’episcopato italiano e delle diverse componenti della nostra Chiesa, sia infine sbocciata negli Orientamenti pastorali belli, ariosi e interpellanti del decennio in corso, dal Cardinal Bagnasco ufficialmente presentati il 4 ottobre di due anni fa.
Già a metà ‘800, in verità, l’abate Antonio Rosmini Serbati, oggi beato, additava una delle cinque piaghe di cui soffriva la Chiesa nell’insufficienza dell’educazione cristiana. Nei tempi antichi, a suo dire, erano stati quattro i pilastri su cui essa saldamente poggiava: "l’unicità di scienza, la comunicazione di santità, la consuetudine di vita, la scambievolezza di amore". La modernità, e ancor più questa nostra età, ultra o post-moderna che la si voglia chiamare, è attraversata da questa stessa urgente esigenza, che il tempo non ha fatto che acutizzare. E la Chiesa non ha mancato di avvertirla come una spina conficcata nella sua carne. Non a caso famiglie religiose di rilevante importanza, negli ultimi secoli, dai Gesuiti ai Salesiani alle Orsoline, hanno declinato il carisma dei Fondatori soprattutto in questa chiave, mentre il Vaticano II vi ha dedicato un intero Decreto. E l’ultimo Sinodo dei Vescovi, affrontando il tema della nuova evangelizzazione, lo ha volutamente coniugato con quello della trasmissione della fede.
Tanto che ancora val la pena riflettere in proposito sulle lucide e per molti versi profetiche parole dello stesso Rosmini, che trovano eco nelle parole che a questo tema dedica il Presidente della CEI. Intanto – dice Rosmini – occorre ridare unità di contenuto, di prospettiva, di obiettivo alla scienza multiforme che viene impartita. A partire da che cosa? dalla Parola di Dio e dal suo culmine in Gesù Cristo, Verbo di Dio. Se non vi è questo centro vivo la scienza non ha "né radice né unità" e resta semplicemente "attaccata e per così dir pendente alla giovanile memoria". Occorre poi superare la "nefasta separazione tra teoria e pratica", perché nell’unità tra scienza e santità "consiste propriamente la genuina indole della dottrina destinata a salvare il mondo". E infine occorre guardare a quella stagione in cui "l’ammaestramento non finiva in una breve lezione giornaliera, ma consisteva in una continua conversazione che avevano i discepoli co’ maestri". Anche perché la verità implicata nell’educazione e nella formazione cristiana "impone rispetto e venerazione di sé tanto in chi la riceve quanto in chi la comunica".
Da cima a fondo, dunque, la comunicazione e la ricerca del vero, del bene e del bello hanno a che fare con l’unità: tra i rami del sapere, tra studio e vita, tra discepoli e docenti. Perché uno è il Maestro che dà luce e una la Sapienza che a ogni cosa dà sapore. Tanto che – come recentemente, e con ardita immagine, lo stesso Presidente della CE ha auspicato – la Chiesa tutta e, in sincera e fiduciosa sinergia con essa le più vive e fervide ispirazioni culturali del nostro Paese, possano avvertire a loro rivolto l’invito sincero e impellente a dar vita a una grande "aula" di ricerca e pratica del vero e del bene. Per imprimere slancio al nostro comune futuro.

5. Tutto ciò – ed è questo l’ultimo tema, per il vero di assai impegnativa rilevanza e per questo ampiamente trasversale al percorso ideale disegnato in queste pagine, sul quale vorrei richiamare infine l’attenzione – ci riporta allo stile della presenza e della testimonianza della comunità ecclesiale nella società. Pochi cenni, penso, sono sufficienti per cogliere la peculiare tonalità che la declinazione di questo tema vi conosce.
Intanto, la comunità ecclesiale. La consapevolezza che guida e orienta l’interpretazione autorevole che il Presidente della CEI offre in proposito è modellata su due grandi e radicati convincimenti.
Da un lato, vi è la costatazione, suffragata da un perseverante esercizio della responsabilità e della condivisione del servizio pastorale, che, nonostante la pervasiva erosione d’impronta secolaristica, la Chiesa in Italia è ancora e sempre una Chiesa di popolo. Come attestano la capillarità della sua presenza e della sua diaconia, nel quotidiano del vissuto della gente e insieme sulle frontiere anche più impervie del disagio e dell’emarginazione, e, di qui, la complessiva capacità di tenuta, a livello sociale, che questa presenza riesce a infondere all’intero sistema del Paese. Né va sottovalutata, in generale, la capacità inclusiva e integrativa che anche grazie a questa presenza, la nostra società complessivamente mostra di saper gestire nei confronti degli ingenti movimenti d’immigrazione e trasformazione che investono l’Europa. Ma ciò non significa – ecco il secondo e corrispettivo convincimento – ridurre la presenza della Chiesa al ruolo strumentale di una "religione civile". Questa affermazione netta e decisa è ricca di significato e implicazioni. Perché, innanzi tutto, rivendica alla Chiesa il ruolo critico e profetico che in qualsivoglia società intrinsecamente le compete, se essa ha da essere fedele alla natura e vocazione sue proprie di "germe ed inizio del Regno". E perché, in seconda istanza – che è la prima, se si guarda al rapporto con Cristo da cui la Chiesa tutta e solo deriva la sua vita e missione – la richiama a quella radicalità di adesione, di annuncio e di testimonianza in cui unicamente consiste la sua ragion d’essere. Senza integrismi di sorta, è chiaro: perché proprio il più concreto e integrale riferimento a Cristo è per ciò stesso la più sincera apertura alla libertà del suo Spirito e la più perseverante e concreta prossimità all’uomo. Nel segno dell’auspicio disarmato e forte formulato da Vittorio Bachelet e ripreso in queste pagine: «In questa fase di passaggio, in questa svolta della civiltà alla quale ha voluto rispondere il Concilio Vaticano Il nel cui solco fecondo noi abbiamo lavorato e ci impegniamo a lavorare, occorre soprattutto una forza spirituale che testimoni nella povertà dei mezzi umani la sua fedeltà a Cristo, in una carità aperta e libera verso tutti i fratelli facendosi trasparente al Suo volto».
Stando così le cose, è bello e promettente lo sguardo con cui il Presidente della CEI sa cogliere i germogli di vita nuova che, sul tronco della solida e straordinaria tradizione di fede e di carità della nostra Chiesa, sono fioriti e cresciuti in questi decenni, in stato di minorità e non di rado in sordina, per lo più, ma proprio per questo come espressione genuina di quella logica paradossale di cui vive l’avvento del Regno di Dio nelle trame difficili e spesso complicate della storia. Così che la comunità ecclesiale, nella sua veste laicale e nella sua rilevanza anche civile, possa esplicare al meglio – secondo le parole del Presidente della CEI – la sua irrinunciabile vocazione di "promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni".
Quello che, soprattutto negli ultimi suoi interventi, il Cardinal Bagnasco tratteggia è, dunque, senz’altro un "sogno". Ma già sostanziato di realtà. E perciò è al tempo stesso promessa – nel senso biblico del termine – . Che si profili, a fronte della gravità del momento e dell’imponenza delle trasformazioni che esso chiede, e prima per esigenza interiore di una fede radicalmente vissuta e perciò a fondo pensata e storicamente declinata nelle sue esigenze, una nuova stagione di impulso e investimento culturale, sociale e politico da parte dei cattolici in Italia, non è una chiamata alle armi. È, piuttosto, il segno positivo e maturo della lunga e travagliata stagione d’incubazione seguita al Concilio Vaticano II, nutrita dei suoi insegnamenti, corroborata dai doni dello Spirito e generosamente vissuta dal Popolo di Dio nel solco dell’ininterrotta e feconda tradizione della Chiesa. È un segno dei tempi nuovi. E, per questo, attingendo al Vangelo di sempre, è espressione di un volto rinnovato della comunità ecclesiale e della forma rinnovata della sua attiva presenza nella società. Si tratta – nelle parole del Cardinal Bagnasco che vanno attentamente meditate e accolte, perché individuano un sicuro indirizzo di cammino per il futuro – di un "giacimento valoriale ed esistenziale" che costituisce "la bussola interiormente adottata dai cattolici" e dal quale "si sprigionano ormai ordinariamente esperienze che sono un vivaio di sensibilità, dedizione, intelligenza che sempre più si metterà a disposizione della comunità e del Paese".
Certo, la sfida o, meglio, la "porta stretta" sulla quale si deve misurare questo "soggetto unitario plurale" che la comunità ecclesiale è ormai capace di esprimere in ambito culturale e sociale, sta nella capacità di interlocuzione e di incisività che sapranno esibire le sue diverse componenti, al proprio interno e in dialogo con le diverse espressioni della società civile. Ma il fatto stesso che questa possibilità sia maturata dice a chiare lettere che la fase inedita della vicenda umana nella quale irrevocabilmente siamo entrati, se ci chiede di transitare per la "porta stretta" cui in queste pagine ci si richiama, può già rinvenire – per il dono sovrabbondante di Cristo e nella creativa risposta dei credenti – le energie giuste e la spinta decisiva per compiere felicemente questo passaggio.

Piero Coda – Preside dell’Istituto Universitario Sophia Incisa in Val d’Arno (FI)

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