Una porta da attraversare insieme (1)

Testo integrale in anticipazione al Sir

1. La metafora evangelica della "porta stretta", attraverso cui è necessario passare per accedere alla vita, è quanto mai calzante per raccogliere sotto di un titolo le prolusioni che il Cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova, ha pronunciato nel primo suo quinquennio in qualità di Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, in occasione sia del Consiglio Episcopale Permanente sia dell’Assemblea Generale. Con questa metafora, infatti, Gesù richiama il fatto che alla vita vera e piena non si accede passando per ogni dove e, più ancora, che la porta specifica attraverso cui occorre transitare chiede attenzione, decisione, impegno e ogni sforzo. Ciò, del resto, è di ogni cosa umana che meriti questo nome: quel che vale e porta frutto non è mai facile o banale. E se anche è vero, nell’ottica della fede cristiana, che "tutto è grazia", non bisogna equivocare sul significato e la responsabilità di questa basilare verità: perché la grazia, in realtà, non è mai "a buon mercato". Anzi, se è vero che ci è donata senza nostro merito, è altrettanto vero che, per essere accolta, chiede che prendiamo saldamente in mano tutt’intera la nostra intelligenza e libertà: per riconoscerla, questa grazia, per accoglierla, per esserne grati e per portarla a buon frutto. Come descritto incisivamente nella parabola dei talenti diversamente distribuiti e diversamente trafficati.
Dunque, la "porta stretta". Una metafora, e in essa un imperativo, che ben s’attagliano all’esistenza cristiana. Oggi, poi, essa viene a esprimere senza mezzi termini il passo che ci è chiesto. Subito ci viene di pensare alla grave situazione di crisi economica che travaglia il nostro oggi e che di più in più si palesa come la punta d’iceberg d’una crisi più profonda e generale, che tocca le radici stesse dell’uomo e investe la figura e il progetto dei nostri destini, ponendo di fronte a noi, ineludibili, degli interrogativi che urgono e più non si possono disattendere. In questo vasto contesto, anche la situazione che vive la nostra Italia, a livello politico e socio-culturale oltre che economico, non denuncia pure essa la necessità di un improcrastinabile e costoso passaggio ad altro? E la Chiesa – come, con pacata autorevolezza e vigile senso profetico, ci ha indicato Benedetto XVI indicendo l’11 ottobre scorso un "anno della fede" – non è chiamata essa stessa a compiere, ancora una volta, ma come fosse la prima, l’esodo pasquale attraverso quella porta vivente che l’amore del Padre ha spalancato una volta per sempre, davanti a noi, in Cristo Gesù?
Il cammino, l’esodo, il transito attraverso la "porta stretta", dunque, non sono una condanna né tanto meno un destino amaro, ma la possibilità preziosa che, a vari livelli e in vari modi, oggi ci è offerta. Un vero e proprio kairós. Non si tratta di un "no", ma dell’accesso a un "sì" più grande, più vero, più giusto, più condiviso.

2. Il percorso disegnato con passione, nitidezza e amicizia in queste pagine delinea progressivamente le condizioni di questo transito e già fa pregustare alcuni dei frutti che se ne possono cogliere. Ciò che parla è innanzi tutto lo stile di questo discorrere. Da un lato è lo stile mite, ma al tempo stesso coraggioso e persuasivo che il Cardinal Bagnasco riconosce esser proprio di Benedetto XVI e che egli dal nostro Papa, in sintonia profonda e sincera, eppure in forma del tutto personale, attinge e trasfonde nel suo proprio magistero. Dall’altro, e con altrettanta intima persuasione ed efficacia, è lo stile messo in opera dal Concilio Vaticano II a impregnare il vedere, il giudicare e il dire del Presidente della CEI. Di qui due peculiari qualità che, sin dall’inizio, danno stagliata figura e contenuto pregnante all’insegnamento e al servizio di guida e indirizzo in queste pagine documentato.
La prima qualità è la pastoralità: nel senso alto e preciso, e al tempo stesso pervasivo e quotidiano, che si è fatto strada appunto, nel cammino della Chiesa cattolica, col Concilio Vaticano II. Il che viene a rimarcare, in buona sostanza, soprattutto che il "porro unum necessarium" della vita del Popolo di Dio è la sequela di Cristo, e che la dispensazione del dono di verità e di grazia di cui la Chiesa è ministra si fa nel segno della prossimità e dell’amicizia. È Dio stesso, in effetti, in Cristo Gesù, sua Parola a noi rivolta in Spirito d’amore, a insegnare alla Chiesa la via maestra per incontrare l’uomo, ogni uomo, tutto l’uomo: «Con questa rivelazione, infatti, Dio invisibile dall’abbondanza del suo amore parla agli uomini come amici e s’intrattiene con essi, per invitarli e accoglierli in comunione con sé».
Ed è precisamente questa sincera passione pastorale, che sgorga dal cuore, illumina la mente e ispira l’azione, che spinge a un ricentramento della vita di fede e della missione della Chiesa. Ecco una seconda qualità. Anche in ciò sono la lezione complessiva del Concilio e il sapiente orientamento del ministero di Benedetto XVI a fare da guida. Lo possiamo dire in tanti modi e descrivere da tanti punti di vista. Con immagine efficace, il Cardinal Bagnasco parla di mettere la propria vita – sia essa quella personale sia essa quella della comunità ecclesiale – "in asse" con Cristo e, per Lui, con Dio: nell’essere, nel pensare, nel volere, nell’agire. Si tratta, dunque, di riguardare al centro, anzi di tornare al centro, di collocarsi in esso e di guardare a sé, agli altri, al mondo, alla storia "dal" centro. Primato di Dio, in altre parole, ma del Dio con l’uomo e per l’uomo che Gesù rivela e ci comunica nel dono sovrabbondante e libero del suo Spirito. Con la Parola e con l’Eucaristia. Per farci altri sé, figli nel Figlio, e cioè suo Corpo, visibilità e testimonianza sua, già nel chiaro-scuro di ciò che è penultimo, attraverso le opere e i giorni dell’uomo.
Ma c’è un altro tratto ancora che distingue queste pagine e che, a ben vedere, logicamente e con armonia discende dalle due qualità sinora addotte: il discernimento collegiale e sapienziale. Queste parole sono del Cardinal Bagnasco e, a partire dal primo intervento, più volte ricorrono poi lungo il corso di questi anni, tanto che, anche quando esplicitamente non vi si ritrovano, sempre sorreggono l’impianto e l’afflato di quanto vi è detto. Sono parole pesanti e impegnative. Perché discernimento chiama all’attitudine prima cui i cristiani sono chiamati nello stare, da discepoli del Cristo, dentro il proprio tempo. Esso significa, infatti, illuminare della luce della fede le situazioni, i problemi, le opportunità e, insieme, cogliere, con gli occhi della fede, i segni dei tempi e gli impulsi dello Spirito. Per vivere e agire, così, con pertinenza evangelica e con responsabilità umana. Dicendo, sempre, "sì, sì, no, no", senza compromessi e senza timori, bensì con libertà, parresia, amore, forza e lungimiranza. Il ricentramento in Dio, per Cristo, nell’esistenza personale e comunitaria del cristiano, ha in effetti l’intrinseca finalità di servire l’uomo e la società nel loro autentico bene. In un tempo, poi, di acuta e pervasiva transizione com’è il presente, è evidente che l’imperativo del discernimento come mai da vicino e risolutamente c’interpella.
Di qui i due illuminanti aggettivi in grazia dei quali il Presidente della CEI qualifica il prioritario ed esigente compito del discernimento, idealmente allacciandosi, sulla scia del Vaticano II, a quanto in proposito rimarcato, in particolare, dai Convegni Nazionali della Chiesa italiana di Loreto e di Palermo. Il discernimento, infatti, per essere autenticamente evangelico, ha da esercitarsi collegialmente e ha da essere intriso di quella Sapienza che è dono dello Spirito. Con ciò si richiama, per renderlo effettivamente operante, quel principio di comunione che qualifica a lutti i livelli l’ecclesiologia del Popolo di Dio sancita dal Vaticano II. Essa, in primo luogo, chiama alla collegialità affettiva ed effettiva dei Vescovi in comunione con il Papa e, in particolare, secondo la forma che le è specifica, all’esercizio di vita ecclesiale da essi perseguito a corpo in un luogo e in uno strumento prezioso come la Conferenza Episcopale. Ma chiama pure, in ognuna delle Chiese locali, all’intensificazione di una ordinata metodologia di partecipazione e corresponsabilità di tutte le componenti del Popolo di Dio.
La pratica collegiale (e comunitaria) del discernimento, cui si richiama il Cardinal Bagnasco, in verità, è compito impegnativo che non s’improvvisa. Perché chiede – come auspica Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte – una formazione e, direi, una spiritualità specificamente comunitaria, capace di mettere in rapporto ed equilibrio l’ascolto della voce di Dio – mediata dalla sua Parola, scritta e trasmessa – nella coscienza personale, con l’ascolto di quanto lo Spirito dice oggi alla Chiesa nella risonanza molteplice e reciprocamente condivisa delle voci che risuonano nel concerto del Popolo di Dio. Si tratta, in altre parole, d’intercettare insieme – guidati dalla luce della Parola e sotto la guida dei Pastori – la lunghezza d’onda lungo la quale lo Spirito di Cristo oggi si fa presente alla Chiesa e, per essa, al mondo, in cui lo stesso Spirito, in un modo che il più delle volte a Dio solo è noto, è all’opera e incalza le coscienze. Il dono di questa Sapienza – lo sappiamo, lo insegna per tutti San Tommaso d’Aquino – risponde alla virtù della carità: si fa cioè presente là dove due o più sono riuniti nel nome di Cristo, in quella sua volontà prima e decisiva che è la carità fraterna e verso tutti.
Un’ultima qualifica mi piace sottolineare nel magistero del Cardinal Bagnasco: lo slancio, lo sguardo in avanti, l’entusiasmo. A dire il vero, altrimenti non potrebbe essere, se si prendono sul serio le qualifiche che sin qui abbiamo annotato. L’accento che risuona in queste pagine, in verità, non è mai nostalgico, reattivo, pessimistico. È, piuttosto, con freschezza e vivacità, l’accento che sprigiona il suo fascino dal lieto e buon annuncio di Gesù. È, letteralmente, "Vangelo". Il che non significa non dire pane al pane e vino al vino, ma farlo in modo che risulti evidente e percepibile, per quanto è in nostro potere, che tutto e solo e sempre scaturisce dall’amore sincero per l’uomo e per il mondo in cui egli vive e di cui è parte. Nella cristallina consapevolezza che questo amore è il segno distintivo, inconfondibile della presenza viva di Dio alla sua creazione e nella storia dell’umanità. Distintivo di Cristo e, per ciò stesso, distintivo della sua Chiesa.

3. È come se, dunque, il discernimento e l’indirizzo di cui queste pagine sono testimonianza sempre di nuovo venissero ricondotti a quella sorgente che è lo sguardo di Dio sul nostro mondo e sul nostro oggi. Si tratta, evidentemente, di un’attitudine in radice spirituale, che nasce dalla consuetudine di vita, personale e collegiale, con Gesù il Cristo. Ma si tratta, proprio per questo, di un’attitudine che investe, a partire di qui, a partire cioè dalle regioni profonde dello spirito visitato e abitato dalla grazia, il modo di vedere e di pensare, di giudicare e di orientarsi nell’agire. Non attesta forse l’apostolo Paolo, con adamantina certezza, che ai discepoli è fatto l’incalcolabile dono del pensiero stesso di Cristo? Dono che, come sempre, si traduce in un preciso, inderogabile e crocifiggente impegno: affinché, in tutto, anche nel pensare ed agire nostro, non più noi viviamo ma Lui in noi.
Questo sguardo e questo pensiero sono quelli che più d’ogni altro permettono non solo di offrire un’impregiudicata fenomenologia dell’oggi e della sua crisi, ma anche di scavarne con attenzione le radici e di ponderarne con giudizio la portata. Non è affatto per una sorta di appiattimento sulle urgenze e le ferite del presente, dunque, che gli interventi del Presidente della CEI tornano ogni volta sulle questioni e sui problemi che travagliano la società, in Italia e nel mondo. C’è, piuttosto, la condivisione sincera, e a tratti persino accorata, perché dal cuore appunto promana, dei disagi ingenti e delle oscure incertezze che pesano sulla vita degli uomini e delle donne del nostro tempo, dei giovani, degli anziani, dei più poveri ed emarginati.
E di questi disagi e incertezze non solo si dà conto, ma volta a volta – nel rispetto rigoroso delle competenze e delle incombenze di chi è chiamato alla gestione della cosa pubblica – ci s’impegna a offrirne un’analisi puntuale e una diagnosi efficace, insieme proponendo delle prospettive per un realistico avvio a soluzione. Ma, insieme a ciò, c’è al tempo stesso l’invito a contestualizzare quanto oggi accade, nella ruvidezza e gravità delle sue palpabili conseguenze, entro la parabola ampia disegnata da scelte e opzioni che hanno segnato a fondo il prender figura della cultura in cui siamo immersi e della società entro la quale viviamo. Si tratta, ancora una volta, ma se possibile (e di fatto lo è, essendo al contempo necessario) più da presso e con più lucida cognizione di causa, di discernere il significato risolutivo del rapporto tra la fede cristiana e la modernità. Come recentemente ha rimarcato con lucidità Benedetto XVI, quest’operazione è stata al centro dell’intenzionalità più profonda del Vaticano II, e non solo nella Gaudium et Spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Ma di questa discriminante questione – al dire del Papa – non si è ancora giunti a offrire "un chiarimento sostanziale". In questa prospettiva, che vigorosamente impegna la cultura di matrice cristiana e che ha consistenti riflessi sul modo d’impostare la missione pastorale della Chiesa nell’oggi, il Presidente della CEI, riprendendo e rilanciando il nucleo più vivo ed incidente del magistero dell’episcopato italiano dal Concilio ad oggi, propone una strategia che vede l’interazione dinamica e creativa di due momenti complementari. Si tratta, da un lato, di mettere a giorno e di promuovere ciò che della modernità è un vero e imperdibile guadagno, vale a dire ciò che in essa è in sintonia con l’anima cristiana, ciò, anzi, che in fin dei conti tradisce l’anima cristiana di cui è testimonianza nella sua efficacia culturale e storica. Ma si tratta anche, d’altro lato, di mettere in guardia, con vigore e severità, da quelle derive che la cultura della modernità ha conosciuto e conosce quando assolutizza certuni principi, in sé anche validi, e soprattutto quando programmaticamente li sconnette da quel riferimento al bene integrale della persona che il Vangelo di Cristo custodisce e propizia, giungendo persino a negarne e irriderne il significato e il valore.
L’operazione è senz’altro ardua, ma impellente e, se perseguita con determinazione e lungimiranza, positivamente produttiva. Per la Chiesa e per la società. La questione che la modernità ha messo all’ordine del giorno, e che molti degli esiti cui essa sembra oggi rovinosamente indirizzata rendono improcrastinabile, è in effetti, a conti fatti, la questione antropologica. È su questo terreno che va giocato il confronto, serio e rigoroso, e che la cultura di matrice cristiana ha da spendere, e prima da attivare con rinnovata energia, le sue carte migliori. In tal senso – e il Cardinal Bagnasco non manca di ricordarlo – l’iniziativa del Progetto culturale, con tenacia e con lungimiranza voluto e promosso dal Cardinal Ruini a seguito del Convengo ecclesiale di Palermo, si accredita e ripropone come strumento provvidenziale e prezioso da far fruttificare al meglio.
Il Presidente della CEI, per il vero, individua anche, in sintonia col magistero conciliare e pontificio, il punto cruciale di quest’impegno. Si tratta, in fondo, riproponendo con rinnovato vigore il ricentramento dell’esperienza di fede su Cristo e in Cristo su Dio che è Amore, e perciò Trinità, di portare a compimento la svolta moderna verso il soggetto liberandola dall’imprigionamento mortifero nell’assolutizzazione dell’"io" e aprendola all’esercizio esigente e plenificante del "noi". Il che implica e propizia l’essere toccati, convertiti e trasformati dalla presenza graziosa e gratuita dell’Altro come sorgente e principio sempre nuovo della nostra esistenza. Se per Dio – come scrive Hans Urs von Balthasar – originariamente vale la regola aurea, che è fonte di vita, di fecondità e di gioia, secondo cui "è bene che l’altro sia", quanto ciò ha da valere anche per la persona umana, a immagine e somiglianza di Dio creata! Essa, la persona umana, è tale solo in quanto si apre alla gratificante esperienza di nascere dal dono e di ritrovarsi, in risposta, nel sincero dono di sé. La grammatica relazionale, agapica, ablativa e feconda dell’antropologia illuminata da Cristo ha da brillare nella coscienza, nella vita e nell’invenzione inesausta di cultura da parte dei suoi discepoli, per farsi lievito e sale nella transizione antropologica esigita dal tempo. Perché di questo, alla fine, oggi si tratta: della necessità e dell’aspirazione, anche inconsapevole ma in ogni caso sentita e sofferta, di un nuovo, grande umanesimo, in cui l’avventura spirituale e culturale dell’umanesimo europeo, lasciandosi alle spalle le sue tentazioni e derive, ritrovi nuovo slancio nell’areopago ormai definitivamente universale delle civiltà e culture, aprendosi in forma nuova e fiduciosa al seme fecondatore del Vangelo di Cristo.
Senza l’humus di questo rinnovato umanesimo del "noi", illuminato dalla rivelazione del Dio che è Trinità d’amore, senza il corrispettivo "allargamento" della ragione e del suo effettivo esercizio, la crisi economica, politica e sociale di cui drammaticamente sperimentiamo i morsi, non ha chances di essere superata e di rinvenire la strada per una sua positiva soluzione. Di qui, in forma tutta particolare e assolutamente prioritaria, il tema della sessualità e della famiglia. La Chiesa – e il Cardinal Bagnasco non si stanca di ripeterlo e argomentarlo con determinazione e sagacia – non combatte, su questo fronte, una battaglia di retroguardia o di semplice difesa, ma si spende per promuovere e far brillare a tutto tondo la grandezza e verità della vocazione umana. È l’amore appassionato per l’uomo che la guida e la sprona. Nient’altro. Ed è qui – ne siamo certi alla luce dell’esperienza di ciò che è autenticamente umano e che il vivere in Cristo ci fa gustare nella luce più pura della sua bellezza – che s’accende il futuro vero dell’uomo. La luce di Cristo non storna lo sguardo dalle nostre fragilità e dai nostri smarrimenti, ma li redime e trasfigura, consapevolmente, nel segno pasquale del Crocifisso che è risorto.
Di qui, anche, l’ingentissimo compito, umanamente senz’altro eccedente le nostre forze e capacità, che, nella compagnia di tutti gli uomini e le donne che cercano la verità e la giustizia, oggi ci è chiesto nel rifondare la visione antropologica e l’ethos personale e sociale che ha da presiedere al modo di concepire ed esercitare l’agire sociale, economico e politico. La Caritas in veritate di Benedetto XVI, in questa luce, costituisce un decisivo appello e disegna delle irrinunciabili e praticabili vie di sperimentazione, accreditandosi come un vero e proprio manifesto programmatico per abitare con responsabilità la crisi e per compiere con determinazione e coraggio la transizione che ci è chiesta. Ci sembra dunque non solo opportuna, ma addirittura discriminante, l’attenzione che il Cardinal Bagnasco consacra a questa vigorosa e rinnovata espressione del magistero sociale della Chiesa. In essa, infatti, ci è proposta una rilettura ab imis della teoria e della prassi che hanno segnato, nella modernità, l’agire economico e politico, giungendo agli esiti inquietanti che sono sotto gli occhi di tutti, per invitare a un loro ripensamento aperto all’apporto vivificante di un’antropologia integrale e aperta, ultimamente fondata e illuminata dall’evento di Gesù Cristo. È così che, nel pensiero sociale oltre che antropologico, la visione e l’impulso del Vaticano II possono davvero diventare storia.

(continua – 1)

Piero Coda – Preside dell’Istituto Universitario Sophia Incisa in Val d’Arno (FI)

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