Prefazione – “La porta stretta”

Testo integrale in anticipazione al Sir

Ho accettato volentieri l’invito dell’Editore a scrivere una breve introduzione a questo volume perché queste righe mi consentono di esprimere alcuni ringraziamenti.

Comincio da quelli, per così dire, più immediati. Primo fra tutti il "grazie" al dott. David Cantagalli: lo confesso, la sua proposta di raccogliere in un volume le prolusioni con cui ho introdotto le Assemblee Generali e i Consigli episcopali permanenti, nei cinque anni del mio primo mandato alla Presidenza della CEI, mi ha colto di sorpresa. Alla fine ho detto "sì" non perché convinto del contrario dalle garbate e rispettose insistenze dell’Editore – che avrebbe comunque potuto procedere autonomamente, trattandosi di interventi pubblici – quanto per una ragione specifica, che dirò più avanti. Subito dopo, il mio "grazie" va alla Segreteria generale della Conferenza Episcopale Italiana, specificamente a S. E. Mons. Mariano Crociata, che è il solerte ispiratore di ogni attività volta a coordinare le Chiese che sono in Italia, offrendo un aiuto di qualificata collaborazione al ministero episcopale. Infine, sono profondamente riconoscente al Professor Piero Coda per le suggestive riflessioni che propone nel saggio di apertura del volume, offrendo ai lettori alcune chiavi di lettura per l’approfondimento. Riflessioni che, già in se stesse, costituiscono un "piccolo" tesoro di sapienza teologica.

Oltre a questi motivi di gratitudine per chi ha ideato, realizzato e impreziosito il volume, ci sono altri "grazie" che desidero esprimere. Sono sentimenti altrettanto sinceri, ma, per così dire, strutturali, e costituiscono la ragione ultima che mi ha indotto a dar seguito alla presente pubblicazione.

Comincio dal "grazie" più cordiale ai miei confratelli nell’Episcopato: attraverso di loro si estende a tutta la comunità ecclesiale, sacerdoti, consacrati, laici. Se questo volume raccoglie le "prolusioni del presidente della CEI", esse non sono frutto di una riflessione astratta e solitaria, ma la voce di una Chiesa che, proprio a cominciare dai suoi Pastori, è una Chiesa che ascolta; che è capace di vedere, incontrare, parlare; che sta con la gente e tra la gente, cercando di capire e farsi capire. Una Chiesa che, invitata ad attraversare un tempo complesso ed esigente, è capace, come Benedetto XVI infaticabilmente ci insegna, di essere il luogo in cui fede e ragione si ritrovano e riescono a fare sintesi nella prospettiva del bene comune. Si tratta di un impegno che avverto come un imperativo pressante e in una duplice prospettiva. Innanzitutto, perché si tratta di riflettere attraverso la nostra azione lo sguardo di Dio, che è pieno di simpatia per la vita dell’uomo, e che trova la sua manifestazione "ontologica" in quello di Gesù Cristo. Questo sguardo, cui la Chiesa dà voce, nasce dalla grazia e dal compito che i pastori hanno di condividere l’esistenza della gente, l’esistenza di un popolo cristiano nel quale persiste un grande tesoro di eroismo umile, che giorno dopo giorno costruisce la storia anche se non fa notizia. Per questo il parlare della Chiesa non è mai "ingerenza", ma è uno stare "dentro" il vissuto, offrire l’esercizio collegiale del discernimento. In altre parole, la Chiesa è sempre un popolo, e la lettura della storia che ne fanno i Vescovi risente di questa impronta popolare che nel nostro Paese, nonostante il secolarismo, si conserva e si consolida anche oggi.

È da qui che scaturisce la seconda prospettiva che mi preme sottolineare: la profezia della Chiesa, oggi. Il profeta guarda le cose con lo sguardo di Dio, ne coglie la verità interna e ne intravede l’esito, anticipando simbolicamente nella sua esperienza il tempo futuro. Così è per la Chiesa che inizia il Regno nella comunione ecclesiale, nell’annuncio del Vangelo e nei sacramenti. Con il suo magistero, dunque, la Chiesa interpreta il tempo presente contestando i miti dominanti che portano non alla felicità, ma a deserti tristi e disumani. Gesù Cristo va annunciato con gioia e convinzione, nel mistero della sua Persona e nella sua intera verità, comprese le sue implicazioni sul piano antropologico, etico e sociale. E sempre nel "noi" della Chiesa. Diversamente la fede è destinata a restare un fatto puramente emotivo, sentimentale, in fondo irrilevante per la vita concreta.

Tali sono le prospettive che animano nel nostro amato Paese il servizio ecclesiale, anche se a volte frainteso. In realtà, se la Chiesa parla e rivendica il proprio diritto a farlo, dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che non è per desiderio di ingerenza, ma solo per difendere la causa della verità e dell’uomo del nostro tempo. Nel mio servizio, peraltro, avverto di essere l’eco di molti, spero di tutti, a iniziare dai miei Confratelli Vescovi, ai quali rinnovo la mia riconoscenza per avermi sempre fatto sentire il loro affetto, sostegno e incoraggiamento, tanto più preziosi nella complessità del tempo. È esperienza di quella collegialità affettiva ed effettiva che Monsignor Coda spiegherà efficacemente tra poche pagine, e che non mi ha mai fatto sentire solo.

Arrivo all’ultimo grazie, che poi è il primo e il più importante. Lo devo al Santo Padre Benedetto XVI. Al mio esordio come Presidente della CEI, aprendo nel marzo del 2007 il Consiglio episcopale permanente, dissi a proposito della mia nomina: «Quando il Papa chiama, si risponde, anche se il carico che viene affidato appare, ad uno sguardo umano, sproporzionato rispetto alle personali risorse». Continuo a pensarlo anche oggi, oltre cinque anni dopo di allora, quando Papa Benedetto ha voluto rinnovarmi la sua fiducia e mi ha confermato alla Presidenza dei Vescovi italiani. Il "grazie" che Gli rinnovo da queste pagine: è il grazie di un figlio che sente costantemente la mano del padre che lo sorregge e lo guida. Non solo con il suo magistero, che ogni giorno illumina i nostri passi e ci indica la strada, ma con quell’amore attento e discreto che solo un padre sa veramente dare.

Angelo Card. Bagnasco

Arcivescovo di Genova
Presidente della CEI

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