Omelia nella messa funebre di mons. Cacciami

Le parole del vescovo Franco Giulio Brambilla

Considero per me un privilegio e un segno dall’alto che il mio primo gesto di congedo a un sacerdote, dopo l’ingresso nella diocesi di Novara, avvenga per un grande sacerdote, uomo di forte fede e penetrante cultura. È un privilegio perché quando il vescovo consegna al Padre un proprio prete, è come se una parte della sua Chiesa, anzi della Chiesa di Gesù, venisse a mancare.

Ho conosciuto solo recentemente mons. Giuseppe Cacciami ai Cedri, il giorno in cui sono andato a trovarlo una settimana dopo  il mio ingresso. Era assopito e forse non mi ha riconosciuto. Abbiamo pregato insieme.

Sabato prima di ricevere la notizia della scomparsa di mons. Giuseppe, con il segretario don Gianluigi, dovevamo decidere dove pernottare a Verbania, scegliendo il posto fra i due offerti da don Roberto Salsa. Senza saperlo abbiamo scelto, prima ancora che mancasse don Giuseppe, la Famiglia Studenti, la prima grande opera di mons. Cacciami. Così ieri sono stato tutto il giorno nella sua casa, e ne ho respirato l’intuizione e ascoltato la voce. Tutto lì parlava dei suoi ricordi, ma soprattutto della forza del suo sogno. Sono ricordi che ci donano una luce abbagliante in questo momento di dolore per la scomparsa di mons. Cacciami. La sua vita, per usare un’espressione biblica, è terminata colma di giorni.

Non avendo conosciuto direttamente don Giuseppe, ho raccolto solo alcune testimonianze su di lui. Partirei con una definizione molto bella che ho trovato in un articolo di un amico che dice così: "Lottatore con la penna in mano". "Si lotta" – rispondeva a quelli che andavano a trovarlo nel momento della malattia –: ecco Lui era un "lottatore con la penna in mano". Una delle cose che mi sorprende sempre di più nella lettura dei testi biblici è che Paolo descriva la vita cristiana con la metafora sportiva, ma egli parola degli sport "duri": il pugilato, la lotta greco romana, la corsa di resistenza, ecc.  Le persone diventano grandi proprio così, solo se sono lottatori. Ho scelto come piccolo canovaccio due quadri della parola di Dio per rappresentare al vivo la figura di mons. Giuseppe.

1. Il primo è preso dalla Seconda lettera ai Corinti, dal versetto due al versetto sei del terzo capitolo, dove leggo così: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto, infatti, che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con l’inchiostro, (parliamo di una persona che di inchiostro ne ha usato tanto) ma con lo spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,2-3). Credo che don Cacciami sia stato proprio questo. Un grande giornalista che ha dato molto sulla scena nazionale e internazionale, perché è stato un uomo che ha imparato a scrivere le parole sui cuori degli uomini e a partire dal cuore degli uomini del suo tempo. La sua Famiglia Studenti ne è testimonianza viva. Ha concepito l’ardito progetto di fare sulle sponde del Verbano una casa, a cui attrarre studenti dall’Italia e dalle nazioni vicine. Se non scriviamo la nostra parola nella carne della vita quotidiana dell’uomo, le parole che poi scriviamo sui giornali, sulle lettere, sulla stampa, sono parole senza carne, senza vita, senza forza, senza profondità. Non toccano, non portano la vita nel cuore dell’uomo e della donna. Questo è il suo mistero, la forza dirompente del temperamento di don Giuseppe. Egli per tanti anni a Verbania ha concepito questo grande sogno. Lui che era valsesiano, è diventato l’interprete di un territorio molto diverso, più secolarizzato, ma non si è spaventato. Perché era un uomo che aveva fiuto, ma il fiuto non nasce dal nulla, nasce dalla forza di questo incontro tra la carne e la parola, tra la vita e il senso che trasforma tutte le cose. Potrei dirlo con le parole di un grande giornalista, Montanelli. Credo che le abbia scritte a proposito di un altro amico di don Cacciami (non so se l’ha conosciuto, ma certamente ne avrà letto gli editoriali pungenti come i suoi Spilli), il canonico Spada, anche lui all’origine di un miracolo giornalistico, l’Eco di Bergamo. Alla sua morte, Montanelli scriveva così di questo grande personaggio, ma credo che si possa dire anche don Cacciami. È una frase fulminante: «Il guaio di questo tipo di uomini che è anche il loro pregio è quello di dire (e scrivere) ciò che pensano e di pensare ciò che dicono (e di scriverlo)». Ecco il guaio che è anche il pregio del grande giornalista! Più semplicemente direi di ogni grande uomo.

Ho trovato anche quest’altra espressione di don Dante Airaga per il 60° di sacerdozio di don Giuseppe, un amico che scriveva così: «Don Giuseppe è stato un infaticabile rabdomante, alla ricerca della sorgente zampillante e ha stimolato i suoi giovani, i suoi collaboratori alla ricerca della verità, sempre alla luce del Vangelo».

Ecco questa è la prima immagine, la prima icona per leggere la testimonianza di don Giuseppe, che lascia dietro di sé anche una forza vitale, che si prolunga oltre lui stesso, perché questi uomini, che hanno fatto accadere un avventuroso e inimmaginabile scambio tra la vita e la parola, lasciano dietro di sé delle sorprese. Così a Novara ha lasciato tante testate giornalistiche di ispirazione ecclesiale, quando a Milano sono scomparse tutte. Per far questo basta un uomo, un uomo appassionato.

2. La seconda immagine, è quella che viene dal Vangelo che abbiamo ascoltato: «Passato il sabato, Maria di Magdala e le altre donne, di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole…». Quelli come don Cacciami sono uomini che, in un periodo storico, vedono già dal levar del sole come va a finire il giorno. E continua: «Esse dicevano tra loro: "Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro". Ma guardando che il sasso era già stato tolto, entrando nel sepolcro videro un giovane, seduto alla destra, vestito di una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: "Non abbiate paura. Voi cercate Gesù Nazareno il Crocifisso?». Le donne, che sono le custodi della memoria, degli affetti, della tenerezza, dell’attenzione, lo cercano nel luogo della memoria, e invece l’angelo dice loro: "Voi lo cercate dalla parte sbagliata, nel luogo della memoria. Invece è risorto, non è qui! Dove voi lo cercate non c’è, è dall’altra parte". E don Giuseppe, questa è l’immagine che voglio lasciarvi, è stato uno che ha fatto cercare dall’altra parte, dentro questa vita che lui intravedeva proiettata sul futuro. Era un personaggio "visionario", colui che vede prima le cose, che invece noi con i nostri occhi appannati non vediamo perché siamo ripiegati su noi stessi. Questa è la seconda immagine che portiamo nel cuore e di cui abbiamo bisogno. Dico che sono veramente contento di celebrare il mio primo funerale di una persona così importante, perché autenticamente cristiana. Ve lo esprimo a questo punto leggendovi il Messaggio del Cardinale Ruini, con cui don Giuseppe ha intrecciato un intenso rapporto.

Eccellenza Reverendissima,
Le sono molto grato di avermi informato tanto tempestivamente della morte del caro amico Don Giuseppe Cacciami. Mi legava a lui un rapporto che è nato nel 1986 e ho sempre ammirato la sua straordinaria intelligenza e la sua dedizione di vero apostolo del nostro tempo, innamorato del Vangelo e intenzionato a comunicarlo per le vie e con gli strumenti di oggi. A lui anche personalmente devo molto e perciò mi unisco con tutto il cuore alla preghiera di Vostra Eccellenza, dei sacerdoti e della gente della Diocesi di Novara, chiedendo al Signore che lo accolga nel suo amore misericordioso e porti a compimento ciò per cui Don Giuseppe ha speso tutto se stesso.
Grazie ancora, Eccellenza, La saluto con grande amicizia.
suo
Camillo card. Ruini

E vorrei terminare con un suo testo, scritto nel 2005, con il Papa Giovani Paolo II ormai anziano e sfiancato dalla malattia: sentite la penna del lottatore… in questo incipit!

Karol Woitjla nelle vesti di Mosè

L’abitudine crea l’attesa. Così avviene ogni anno per la lettera che il papa manda a tutti i cristiani. Stavolta Carol Woitila veste i panni di Mosè nella lettera che arriverà per la prossima quaresima. Commenta le parole di Mosè rivolto al popolo per invitarlo a fare alleanza con Jahvè. Confesso candidamente di essere allergico a quel pettegolume in uso nelle curie e nei palazzi romani per deprecare la situazione precaria del papa ammalato che spiccica le parole ad una ad una con fatica molte volte finendo con un rantolo.

Ma leggiamo la lettera per sommi capi. Titolo "La vecchiaia come dono". Karol invita a riflettere sul ruolo che noi vecchi siamo chiamati a svolgere nella società e nella chiesa. Per questo il papa chiede un’attenzione più marcata alla cosiddetta terza età. Se si invecchia nella luce della fede si comprende meglio il mistero della croce. Occorre far crescere la consapevolezza che noi vecchi non siamo rottami o scartine inutili ma una risorsa profonda da valorizzare.

Proprio per questo il vecchio ha il suo ruolo nella società. L’uomo infatti vive della eredità di quelli che l’hanno preceduto, anche morale, e il suo futuro dipende dal modo come gli sono stati trasmessi i valori della cultura.

Così camminiamo verso una civiltà più completa se cercheremo di mantenerci aperti verso i fratelli e le sorelle ridotti nelle loro capacità dai disagi dell’età o della malattia.

Essere vecchi cristiani vuol dire mantenersi fedeli all’alleanza con Jahvè. Gronda di ottimismo la lettera quaresimale del papa che si chiude consigliandoci a pensare con fiducia al mistero della morte perché l’incontro finale avvenga in un clima di pace interiore nella certezza che ad accoglierci è colui che ci ha voluti a sua immagine e somiglianza.

Di fatto questa promessa di vita fa di noi vecchi una risorsa da valorizzare e ci aiuta a trovare un posto e un ruolo specifico nella società senza rassegnarsi al pessimismo e al nichilismo. Questo è il ruolo importantissimo che Karol Woitjla riveste pur essendo vecchio e ammalato e menomato nel suo vigore fisico. Il papa nota che per meriti della scienza e della medicina si assiste a un allungamento della vita umana e a un incremento del numero degli anziani. Per questo il problema della terza età è il più grande problema delle comunità ecclesiali e civili del mondo occidentale.

La soluzione del problema può avvenire all’unica condizione che tutti gli anziani affrontino questi interrogativi di fondo per affrontare il proprio ruolo nella società; una società di vecchi in cammino verso una forma di civiltà più completa.

Inoltre, siccome gli anziani camminano verso la morte il papa ci incita ad abituarci a pensare con fiducia al mistero della morte perché l’incontro con Dio avvenga in un clima di pace interiore. Sarebbe auspicabile che gli anziani leggano tutti questa lettera che noi pubblicheremo e che costituisce un fatto sociale di immensa rilevanza e che smentisce tutte le fasulle campagne retoriche sulla perenne giovinezza, su una forma di salutismo becero, ma si radica in un realismo animato dalla fede.

Dobbiamo constatare che quanto si fa per la nostra vecchiaia ci offre la possibilità di affrontare interrogativi di fondo che prima forse avevamo trascurato. Una stagione giovanile dunque se ci convinciamo che pur essendo vecchi possiamo avere e dedicarci a quell’essenziale che è il modo di vivere del buon cristiano. L’essenziale che non viene danneggiato e logorato dall’usura degli anni. Se durante questa Quaresima, leggendo personalmente la lettera del papa, i vecchi si convinceranno della ricchezza del dono che essi possono dare all’umanità può cominciare una nuova stagione dove l’ottimismo diventa obbligato.

Se il vecchio risponde all’appello di Mosè di stringere un’alleanza con Jahvè nel paese di Moab non in forma simbolica ma facendone un tempo assiduo di preghiera e di ascolto della Parola abbiamo senza retorica acquisito una garanzia per il nostro futuro.

Grignasco, febbraio 2005

don Giuseppe Cacciami

Concludo. Il giorno in cui sono stato a trovarlo, la sua fedele collaboratrice lo aiutava a pregare, dicendo un’espressione dell’Ave Maria dopo l’altra, che don Giuseppe flebilmente ripeteva con la voce. Arrivato alla frase: … e nell’ora della nostra morte, don Giuseppe non la disse, ma dopo l’invito a ripeterla, con un ultimo filo di voce rispose: e nell’ora della nostra morte…. Così muoiono i grandi uomini, perché hanno vissuto da uomini grandi!

+ Franco Giulio Brambilla

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