Un punto di contatto

Testimoni digitali

Nell’era del digitale e con l’avvento del Web2.0, vero e proprio “ambiente” all’interno del quale si stanno sviluppando diversi tipi di comunicazione e nuove forme di socialità in rete, la Chiesa deve trovare “un nuovo linguaggio”, incisivo ed efficace, ma “che non tradisca le profondità e le sfumature del messaggio che le è stato affidato”. Ne è convinto mons. Paul Tighe, segretario del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, secondo il quale questa “rivoluzione” non può essere intesa “in termini puramente strumentali”, ma costituisce un vero e proprio “cambiamento di paradigma nella cultura stessa della comunicazione”. Presentiamo una sintesi del suo pensiero al riguardo, espresso in un articolo pubblicato sull’ultimo numero di “Culture e Fede”, rivista trimestrale del Pontificio Consiglio della cultura.

La “sfida” del relativismo. Dicendosi preoccupato non per “le limitazioni tecniche da superare” ma per “le sfide culturali”, mons. Tighe indica in particolare tra queste “il relativismo”, i cui dogmi trovano accoglienza “generalizzata e acritica” nel mondo digitale, “dove il volume stesso delle informazioni e delle opinioni, in gran parte contraddittorie, può portare all’accettazione quasi rassegnata che è inutile parlare di verità e di oggettività”. Di fronte “a tante argomentazioni e contro-argomentazioni – afferma -, è difficile decidere dove risiedano una vera autorità e competenza. Data la dubbia e spesso anonima provenienza di gran parte di ciò che compare nel cyberspazio, diventa molto facile diffondere le proprie opinioni per coloro che desiderano ingannare”. Secondo il segretario del Pontificio Consiglio, “le persone si rivolgono soltanto a fonti di informazione” che ritengono “degne di fiducia”, ma spesso questo giudizio “è radicato” nella loro “visione prestabilita del mondo” e “serve soltanto a confermarle nelle proprie opinioni”, invece di condurle “ad una vera ricerca della verità e della comprensione”. “Nel mondo dei media cattolici, specialmente nella blogosfera, dove spesso i protagonisti” tendono “ad attaccare le argomentazioni, e anche la persona, di chi non è d’accordo con loro”, c’è il rischio, avverte mons. Tighe, “che alcune forme di espressione stiano danneggiando l’unità della Chiesa”, e che il suo discorso culturale “cada nella superficialità”. L’attenzione dei media, inoltre, “può anche essere molto volubile”.

Una generazione “post-literate”. La necessità di trovare un “nuovo linguaggio” adeguato ai mutati contesti culturali, e che “affiancherà gli altri della sua tradizione” non è peraltro nuova per la Chiesa. E a chi ritenesse il linguaggio della cultura digitale “eccessivamente banale o effimero” per tradurre la profondità del messaggio cristiano, mons. Tighe rammenta che esso non sostituirà “il linguaggio preciso del dogma e della teologia o il ricco linguaggio dell’omiletica o della liturgia”, ma servirà a stabilire “un punto iniziale di contatto” con i “lontani dalla fede”. Molti siti ecclesiali, spiega, propongono “meravigliose omelie, discorsi e articoli, ma non è chiaro se parlino ad un pubblico più giovane che conosce una lingua diversa, radicata nella convergenza tra testo, suono e immagini”. Pertanto, senza “forme espressive” appropriate per una generazione “post-literate”, si rischia di “parlare solo con noi stessi”. “Dobbiamo capire meglio – prosegue – come il nostro messaggio viene ascoltato e compreso dai vari pubblici”, ed “essere più attenti” ai loro interrogativi, mentre la comparsa di Internet come mezzo interattivo “ci richiama a sviluppare forme più esplicitamente dialogiche d’insegnamento e presentazione”.

Servire il bene di tutti. “Nell’imparare a parlare i linguaggi dei nuovi media, i credenti stanno aprendo la strada” anche alla promozione di “quel dibattito universale” necessario affinché “questi media realizzino la propria potenzialità di servire il bene di tutti”, come auspicato dal Papa, nota mons. Tighe. “I credenti devono portare le idee della nostra fede all’interno del dibattito sulla dignità umana, ma per essere efficace” ciò richiede “un linguaggio accessibile a coloro che non condividono la nostra fede, ma sono disposti a condividere il nostro interesse per il bene della comunità”. Per questo, sottolinea, “molti commentatori hanno parlato della necessità che gli uomini di fede acquisiscano due linguaggi; un primo linguaggio della cittadinanza, che permetta loro d’impegnarsi con tutti gli altri nel forum pubblico, e un secondo linguaggio che possa essere condiviso con quelli che appartengono alla loro stessa tradizione”. Per la Chiesa, la sfida è allora “quella di trovare un linguaggio che sia idoneo a questo nuovo forum, ma che non tradisca le profondità e le sfumature del messaggio che le è stato affidato”. Un messaggio, conclude mons. Tighe, per molti aspetti “più radicalmente contro-culturale che mai – la Chiesa parla di verità in un ambiente in cui lo scetticismo è la norma, tenta di parlare a tutti in un campo in cui l’attenzione è concentrata su mercati di nicchia e gruppi di interesse, e invita le persone all’impegno in un mondo in cui regna la novità”.

(19 marzo 2010)

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