L’infinita sorgente

PAPA IN TERRA SANTA

Folklore di vesti orientali e suggestive, copricapo dalle mille fogge, iridescenze di colori, peep-toe e sandali, profumi di fiori e di vegetazione lussureggiante, luoghi antichi di ancor più antica memoria: una cornice degna del Medio Oriente che s’incrocia con l’Europa. Tutto un contesto messo a puntino e organizzato in modo sapiente e accattivante. Molto di non visto e di non esibito probabilmente avrebbe parlato un altro linguaggio, ma è ben noto quanto l’ombra giochi con la luce, quanto il negativo sia sempre compresente nel vivere umano alle prese con l’imperfezione e il limite.
Se sempre un viaggio del Papa offre il fianco a critiche e obiezioni di opportunità o di favoritismi o, ancora più semplicemente, di cattura mediatica, il viaggio di Benedetto XVI che si sta concludendo in queste ore, portava con sé un cartellino rosso, un terreno minato gli si apriva dinanzi. Come rispettare tre religioni, tre popoli, tre culture, senza tradire o inquinare la propria testimonianza evangelica? Senza eludere i grandi nodi della storia passati e presenti?

La risposta è affidata all’agire dell’Altissimo nella storia: “La Cupola della Roccia conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune. Ciascuna crede in un solo Dio, creatore e regolatore di tutto. Ciascuna riconosce Abramo come proprio antenato, un uomo di fede al quale Dio ha concesso una speciale benedizione. Ciascuna ha raccolto schiere di seguaci nel corso dei secoli ed ha ispirato un ricco patrimonio spirituale, intellettuale e culturale”.
Il compito, perciò, non è affidato alla diplomazia, alle “public relations” o, ancor peggio, al “business”, vale a dire al tornaconto, privato o pubblico, ma all’Altissimo che lo trasfigura in germe fecondo solo se sparso a piene mani, con il gesto ampio e disinteressato del Seminatore. A Lui bisogna guardare, il seme poi farà il suo corso.

Il gesto di Benedetto XVI seminatore non poteva risultare più ampio, a tutto tondo e in tutte le direzioni, senza lo sfarfallio dei gesti istrionici, senza il fragore dei toni rimbombanti che non gli sono consoni. La sua personalità si consegna nella levità e nella chiarezza, con forte convinzione e sostanza trasparente, porgendo pietre di costruzione reale perché sa ascoltare in silenzio, come allo Jad waShem: “Il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente”.
Bisogna abbattere i muri ed è possibile quando lo si voglia, fondandosi sulla giustizia e sul desiderio di pace, poi si deve passare alla costruzione che accetti ciascun popolo in un’unità che non parli il linguaggio della soppressione, della violenza, dell’annullamento ma quello della composizione iridescente, lasciando a ciascuno i propri colori, i propri profumi: “Possiamo tuttavia cominciare col credere che l’Unico Dio è l’infinita sorgente della giustizia e della misericordia, perché in Lui entrambe esistono in perfetta unità”.

Cercatori di Dio perché cercati da Dio stesso, ecco l’identità profonda del popolo di Israele, con buona pace di psicanalisti, antropologi e filosofi, che non ha costruito il suo Dio su misura grazie a proiezioni arcaiche, rimozioni sedimentate o angosce impellenti e laceranti. Per questo bastavano gli idoli pagani che pullulano oggi nei nostri musei o le steli delle alture.
Israele è stato scelto dall’Altissimo, eletto per poter ricevere il “nome”di Jhwh e donarlo all’umanità. Indubbiamente è stato un dono fondante e radicale, che muta l’angolatura della vita ma che indica solo la traiettoria del divenire, questo è in mano a chi risponde costantemente e sempre all’appello.
Israele, ancora oggi, dopo millenni, sta divenendo il popolo eletto, cercatore appunto dell’Altissimo, il “nome” che irrompe e sgretola proprio per poter costruire e portare a compimento la storia dell’umanità.

È il nome, cioè la consegna dell’identità, della persona, che, in un certo senso, spezza il primo muro che racchiude la persona e le consente di porsi in relazione con tutti gli altri e con la realtà stessa. Per il “nome” posto a sigillo della sua esistenza, Israele, pur perseguitato e maltrattato nei secoli, mai è scomparso, anche quando numericamente sembrava ridotto al lumicino. “Il resto di Israele” portava in sé il “nome”, perciò attraverso quella breccia si poteva sporgeva sulla storia.
Oltre il muro della paura e della sfiducia, è stato piantato un ulivo, simbolo di pace, di benessere, di accoglienza, di vita rigogliosa. Per i cristiani Benedetto XVI dal luogo della sepoltura di Gesù Cristo, quando tutto sembrava finito e concluso, attinge la speranza del Risorto e la dona all’umanità intera, un giardino di Risurrezione con tutti i popoli scintillanti in ulivi trasfigurati.

Cristiana Dobner

(14 maggio 2009)

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