La bussola della memoria

Forum di Bibione

“Educare all’ideale, non all’utopia”, “superare la tentazione egemonica”, essere “testimoni” e non “militanti”. Sono gli atteggiamenti propri del cristiano che vuole avere “il pensiero di Cristo”. A definirli il patriarca di Venezia, card. Angelo Scola, intervenuto sabato 26 aprile a Bibione (Venezia) al primo forum nazionale dei “Portaparola” di Avvenire. “Il nemico più subdolo del cristiano” è l’utopia, “che nasce dall’inevitabile ideologia”, ha affermato il cardinale. Diverso è l’ideale, “verità del reale”, “rintracciabile nell’esperienza dell’uomo che affronta ogni giorno circostanze e rapporti”. L’ideale, quindi, è positivo, purché non vi sia “un utilizzo sistematico a proprio favore, a scopo di potere”. È questa la tentazione egemonica, laddove “il potere, anziché essere riconoscimento della verità”, la utilizza “a proprio vantaggio”. E l’uomo che vive per l’ideale è il “testimone”, qualitativamente diverso rispetto al militante, il quale “parte sempre dall’utopia e punta all’egemonia”.

La Chiesa nel cambiamento in atto. Nel Paese “è ormai in atto una svolta culturale decisiva”, di cui un indicatore sono state le recenti elezioni, ha riconosciuto il porporato, precisando tuttavia che il giudizio è meramente culturale, e va “al di là del risultato il cui esame politico non mi compete”. “Per più di quindici anni – ha sottolineato – si è parlato in Italia di una transizione che non accennava a finire, di un passato che non voleva passare e di un nuovo che si annunciava senza mai apparire in forme sufficientemente compiute. Ora qualcosa è decisamente cambiato”. E c’è chi afferma, come Aldo Schiavone in un recente articolo su “La Repubblica”, che “il XX secolo è passato alla storia, è ormai archiviato”. Ma, ha ripreso il card. Scola, “se per affrontare una nuova fase della vicenda umana bisogna avere come bussola la memoria, allora, se la intendiamo bene, la Chiesa, nel vissuto concreto delle sue parrocchie e delle sue comunità, può essere un attore decisivo nel cambiamento in atto nel Paese. A condizione di vivere la memoria nella sua verità, che chiamerei eucaristica. Non cioè come ricordo fatto di ripetitività, ma come presenza che continua a trapiantare l’essenza dell’antico sul nuovo”. “Siamo cristiani perché sappiamo ed abbiamo sperimentato che vivere in Cristo è la pienezza dell’umano”, ed è questo il “nocciolo duro” sul quale gli animatori della comunicazione della cultura “sono chiamati più di altri a radicare il loro compito specifico”.

La fede e la vita. Il patriarca di Venezia ha così condotto gli animatori presenti all’incontro lungo una riflessione su come “avere il pensiero di Cristo”, partendo da alcune condizioni preliminari. “Prima di ogni competenza viene l’appartenenza” è la prima condizione, che implica il riconoscimento della comunità cristiana come “soggetto adeguato di ogni missione personale”. “Bisogna buttarsi”, è il secondo invito, poiché “il vero sapere viene dalla vita. Questo è evidente per la fede: tant’è vero che ci sono persone semplici, ma assai intelligenti nella fede, spesso molto di più di quelli che hanno studiato tanti anni”. La terza condizione è “il paragone di tutto l’io con tutta la realtà”, misurando la propria fede “in tutti gli ambiti dell’umana esistenza”. Ne deriva che la proposta cristiana va rivolta “a tutti instancabilmente”, “partendo dai problemi comuni” e andando “a fondo” in tutte le sue dimensioni “con quelli che rispondono”.

Un’interpretazione della fede. E quale legame tra fede e cultura? “La fede – è la risposta del patriarca – inesorabilmente genera cultura; e, se non la genera, inevitabilmente è monca”. “Una cultura cristianamente ispirata – ha aggiunto, riferendosi in tal modo al progetto culturale – per sua natura tenderà ad un’interpretazione della fede” e, d’altra parte, “un’interpretazione culturale della fede è inevitabile”. Guardando al caso italiano, nello specifico, oggi “sono dominanti due interpretazioni culturali della fede tra loro molto diverse”. La prima, ha precisato, “tende a ridurre la religione cristiana a pura religione civile, a puro collante per tenere insieme la società”; l’altra, definita dal cardinale interpretazione “della cripto-diaspora”, “tende a negare ogni incidenza pubblica della fede perché toglierebbe forza e credibilità all’annuncio di Cristo morto e risorto, inquinandone la purità”. È dunque chiaro in questo contesto, secondo Scola, lo sforzo che deve compiere un progetto culturale nel “proporre un’interpretazione della fede che non cada né nella religione civile, né nella cripto-diaspora”.

(27 aprile 2008)

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