In prima persona

Settimana Sociale

Proponiamo una “lettura” della Settimana sociale dei cattolici italiani (Pistoia-Pisa, 18-21 ottobre) attraverso talune riflessioni del presidente della Cei, mons. Angelo Bagnasco, e alcuni spunti emersi dagli interventi dei relatori.

Questione antropologica. “L’imprenditore che mira alla sola massimizzazione del profitto è un soggetto veramente modesto”. Lo ha detto Stefano Zamagni, ordinario di economica politica all’università di Bologna. “La nostra economia di mercato è troppo poco economia di mercato, perché vi trovano spazio solo imprese di tipo capitalistico”. Non mancano forme di discriminazione nei confronti delle imprese cooperative, come nei confronti dei non sani, perché non efficienti. Sono fatti questi, a cui si può applicare il giudizio dato da mons. Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi italiani, nella prolusione ai lavori del Consiglio episcopale permanente, che si è svolto a Roma dal 17 al 19 settembre scorso. “Sembra che diventi sempre più friabile il vincolo sociale e si prosciughi quel tipo di solidarietà su cui una comunità strutturata deve fare affidamento, se vuole essere un Paese-non-spaesato”. Il rimedio consiste – ha continuato il presule – in una “ricentratura profonda, da parte dei singoli soggetti e degli organismi sociali, sul senso e sulla ragione dello stare insieme come comunità di destini e di intenti”. Zamagni, da parte sua, ha indicato alcune linee di intervento dove la riflessione sul bene comune, appare come la concretizzazione nell’economia globale della questione antropologica, scelta fondamentale della Chiesa italiana. Una premessa è importante: la laicità della modernità non è stata capace di armonizzare l’etica con l’economia, l’etica con il diritto. Il motivo? L’aver voluto escludere il riferimento alla trascendenza, assolutizzando la ragione; lo Stato è stato reso “indifferente” nei confronti dei valori. Occorre un nuovo modello sociale, dove esiste una rete di relazioni tra organizzazioni sociali (associazioni, fondazioni, Chiese) e istituzioni amministrative locali e nazionali, secondo la logica della sussidiarietà. Un modello economico, dove lo scambio cessa di essere anonimo e le transazioni non sono separabili da chi le muove e le dirige. Un modello in cui anche il cittadino è responsabile del proprio potere di acquisto. Nessuno può ritenersi esonerato dal contribuire a raggiungere quei fini, che egli giudica eticamente rilevabili. Si profilano nuovi scenari sociali e ai cattolici si aprono nuove possibilità “per continuare a tessere – ha detto il presidente dei vescovi italiani – una trama di amore e responsabilità civile”. A condizione, però, che si rinunci a modelli di democrazia e di mercato non più del tutto sostenibili.

Verso un nuovo stato sociale. “Attenta com’è alla persona umana nella sua dimensione sociale e trascendente – ha detto mons. Bagnasco nell’apertura della Settimana Sociale – la Chiesa è chiamata ad applicare oggi il suo discernimento”. A che cosa pensa il presidente dei vescovi italiani? Discernimento è “ascolto e proposta, elaborazione e comunicazione, come servizio comunitario e atteggiamento ecclesiale”. “Nel diretto impegno politico – ha continuato mons. Bagnasco – i laici sono chiamati a spendersi in prima persona attraverso l’esercizio delle loro competenze e contestualmente in ascolto del Magistero della Chiesa. Non è questo il tempo di disertare l’impegno, ma semmai di prepararlo e di orientarlo. A tal fine la parola dei pastori non potrà essere assente”.
Queste parole hanno trovato un interessante riscontro nell’intervento di Pierpaolo Donati, ordinario di sociologia all’Università degli studi di Bologna. Tesi fondamentale è che lo Stato sociale in Italia non persegue il bene comune e, pertanto, occorre impegnarsi per nuove alternative: queste possono essere attinte dalla feconda riflessione sulla questione antropologica. E, sappiamo che questo è un impegno primario per la Chiesa italiana. “La situazione nella quale si trova lo Stato sociale italiano è sotto gli occhi di tutti: gli attori politicamente più rilevanti non perseguono il bene comune”. Donati ha denunciato come l’Italia stia distruggendo da tempo e in tutti i modi – educazione, istruzione, lavoro – le nuove generazioni; per di più, il sistema politico distribuisce diritti e risorse a gruppi e categorie sociali che tolgono opportunità, risorse e speranze di vita ai giovani.
La cosa pubblica è in mano a gruppi di potere particolaristici: partiti politici, gruppi di pressione – noti o anonimi – associazioni di categoria e di rappresentanza, piccole e grandi lobby, etc. Tutti cercano di massimizzare i propri vantaggi particolaristici, a danno del bene comune, demandando allo Stato il compito di perseguire fini comuni. Come costruire il nuovo welfare ? Sostanzialmente occorre porre al fondo di tutto una concezione dell’uomo come persona e non come semplice individuo. Mera questione terminologica? No, in realtà si tratta di una scelta di fondo, che anima l’intera antropologia. Scrive Benedetto XVI nell’ultimo messaggio per la Giornata mondiale della pace: “Creato ad immagine di Dio, l’individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno, capace di conoscersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone… in questa mirabile prospettiva, si comprende il compito affidato all’essere umano di maturare se stesso nella capacità d’amore e di far progredire il mondo, rinnovandolo nella giustizia e nella pace”. Persona significa, fondamentalmente, relazione e comunione. Il nuovo Stato sociale parte da qui.

I limiti della biopolitica. Compito attuale della Chiesa è attingere dal Magistero conciliare – sempre attuale e promettente – e proiettarlo, applicarlo “sulle nuove frontiere di questi anni, partendo dalla persona e dei valori che ad essa sono collegati”. Sono ancora parole di mons. Bagnasco. In particolare – ha precisato il presidente dei vescovi italiani, i valori legati alla persona appaiono non negoziabili, cioè “non riconducibili al processo di secolarizzazione e di relativizzazione, che ha attraversato la parte centrale del secolo scorso”.
Questi valori, legati al vivere della persona – sono spesso oggetto dell’azione politica: è l’ambito della biopolitica, oggetto di riflessione alle giornate di Pisa. Ha parlato Francesco D’Agostino, ordinario di filosofia del diritto all’Università degli studi di Tor Vergata (Roma), il quale ha fatto notare come il raggio d’azione sia davvero vasto. La biopolitica si configura come quel “fenomeno – tipicamente moderno – della totale presa in carico e della gestione integrale della vita biologica da parte del potere”. In questa assunzione è facile la tentazione di considerare la vita e il suo sviluppo come eventi “riscrivibili” e, quindi, “negoziabili”. “La biopolitica – conclude D’Agostino – è quel paradigma che ritiene l’ humanitas – non un presupposto , ma un prodotto della prassi“. I valori legati alla vita non sarebbero riconosciuti come pre-esistenti al diritto, ma creati dal diritto, dal potere, dallo Stato. Risulta, allora, necessario uscire da questo paradigma biopolitico, impegnandosi anche per la sua decostruzione.
D’Agostino indica alcune strategie culturali, oggi necessarie. In primo luogo, occorre riconoscere la dimensione del bios , valore intrinseco e pre-politico. Cioè la decisione di non discriminare le persone in ordine alla salute o alla malattia si fonda su un’acquisizione pre-giuridica di natura morale. Un secondo passaggio richiede un notevole sforzo per il sentire comune; “bisogna negare che esista in capo al soggetto un qualsiasi diritto sul proprio corpo, sulla propria vita e di conseguenza perfino in ordine alla propria salute”. Infatti, se si afferma un diritto alla vita, perché non affermare un diritto alla morte.
E, se si afferma un diritto, perché non chiedere che lo Stato lo tuteli? Invece, si deve entrare in un’altra logica, che è quella indicata dalla Chiesa: la vita è data come dono da impiegare responsabilmente. Ancora, si deve cogliere adeguatamente e, forse, valorizzare la fragilità della vita, in quanto sofferenza, malattia, invecchiamento, morte appartengono costitutivamente alla persona. “Attribuendo al corpo fragile una singolarità, che ne impedisce una visione anonima, si nega al potere di decidere sul valore e sul disvalore di quella e della vita in quanto tale”.

Educare è formare. “Ridare al concetto di bene comune una attualizzata efficacia operativa, come ci proponiamo, esige allo stesso tempo una forte proposta educativa in grado di introdurre alla vita e alla realtà intera, capace di giudizio, di proposte alte, di impegno concreto e continuo, cordialmente aperta al bene di tutti e di ciascuno a prezzo di interessi individuali o particolari, a prezzo del proprio personale sacrificio”. È il forte legame tra bene comune e formazione stabilito da mons. Bagnasco.
Luigi Alici, ordinario di filosofia morale all’Università degli Studi di Macerata, si è soffermato sulla necessità di “restituire all’educazione la sua fondamentale finalità formativa”, attraverso la quale ogni persona umana, grazie all’azione educativa esercitata nei suoi confronti, può responsabilmente e progressivamente dare forma alla propria vita. Nella relazione educativa si deve trovare la strada per un’adeguata autonomia. Educare è accompagnare, indicare un cammino, stimolando la persona; talvolta, l’educatore dovrà fare alcuni passi indietro, in modo che l’educando risponda liberamente ai valori proposti; questo non significa “un abbandono della relazione, ma soltanto la sua continua rimodulazione”.
C’è, poi, la “contrazione degli orizzonti temporali”, dove, a motivo dell’incertezza del futuro, l’attesa si fa insopportabile e si fa avanti la tentazione di vivacizzare il presente con la formula del “tutto subito”. Tuttavia, non riuscendo a raggiungere questa meta nel presente, si avverte la necessità di un’evasione, per esempio nel mondo del virtuale. Ancora, oggi è diffuso un “agnosticismo antropologico”, che vede la convivenza sotto il segno dell’anonimato, se non del sospetto, dove gli educatori sono abili maestri del sospetto e lo Stato ha solo il ruolo di garantire le regole del gioco. Rifiutato il modello dello Stato etico, occorre prendere ugualmente le distanze di uno Stato neutro, che fornirebbe solo una cornice alla vita civile. Occorre che famiglia e società, nella diversità delle agenzie educative, condividano lo stesso progetto, pur nella diversità di ruoli. E al centro di questo progetto – paideia – c’è proprio il bene comune, inteso da Alici come “prassi della partecipazione”.

Marco Doldi

(23 ottobre 2007)

Altri articoli in Dossier

Dossier

Informativa sulla Privacy