L’impegno continua

Settimana Sociale

Dalla 45ª edizione della Settimana Sociale dei cattolici italiani (18-21 ottobre), emerge “la consapevolezza di avere qualcosa di specifico da dire e da offrire al Paese come cattolici”, grazie alla loro “presenza qualificata” e “ancora vitale”, come dimostra la continuità centenaria di questo “tradizionale” appuntamento nazionale. Lo ha detto mons. Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, tracciando per i giornalisti un primo bilancio dei lavori di Pistoia e Pisa, a margine della tavola rotonda conclusiva. “Fare un bilancio – ha esordito Bagnasco – è un po’ prematuro, anche perché questi eventi sono come semi che devono avere il tempo di maturare nel cuore delle persone e delle comunità cristiane”. “Certamente – ha però aggiunto il presidente della Cei – ritorneremo a casa con due argomenti: prima di tutto, la rinnovata coscienza e consapevolezza dell’importanza della riflessione delle nostre comunità sui grandi temi della dottrina sociale della Chiesa, e la consapevolezza di avere qualcosa di specifico da dire e da offrire al Paese come cattolici”.

La seconda riflessione che scaturisce dalla Settimana Sociale, ha proseguito il presidente della Cei, è che “il tema del bene comune è di grande attualità”. A questo proposito, per mons. Bagnasco, “c’è concretamente bisogno di una riflessione più seria, approfondita, concreta, che non può prescindere dal concetto di persona e dal bene della persona, intesa però nel suo senso integrale”. “Solo partendo da un concetto solido e concreto di persona – ha detto il presidente della Cei – si può contribuire efficacemente al bene comune”. Il cristianesimo oggi è ancora “vitale”? Mons. Bagnasco ha risposto a questa domanda di un giornalista in senso affermativo: “Le stesse Settimane Sociali, una tradizione che continua da cento anni, sono un segno concreto di vitalità e della consapevolezza e responsabilità che la Chiesa è una presenza qualificata per partecipare alla vita di questo Paese”.

“Meno legiferiamo sulla vita, meglio è”. Alla domanda di alcuni giornalisti in merito a un’eventuale legge sul testamento biologico, mons. Giuseppe Betori, segretario generale della Cei, ha risposto con queste parole, aggiungendo: “Lasciamo ai processi naturali, piuttosto che ai processi legislativi, stabilire che cos’è l’uomo, quando muore, quando nasce”. Quanto alla legge, Betori ha precisato che “non abbiamo ancora un’idea di quelli che sono i processi di scrittura. Vedo che le posizioni variano tra gli stessi propositori, e sappiamo bene che un disegno di legge non significa nulla rispetto a quello che sarà un testo di legge e di discussione”. “Non diamo pregiudizi”, la posizione espressa in sintesi dal segretario generale della Cei: “Meno si legifera sulla vita e più si rispetta la natura, che è poi il principio espresso nella relazione del professor D’Agostino, che ha ricevuto un applauso non indifferente da un pubblico che non frequenta solitamente queste tematiche, ma altri temi del sociale”. “Mi sembra importante sottolineare che un pubblico che non frequenta abitualmente la bioetica – ha aggiunto – ha avuto modo di esprimere un consenso così forte su una posizione che invitava alla cautela. Credo che il fatto politico più significativo di oggi sia proprio questo applauso”. A proposito dell’opportunità o meno, per i politici, di bloccare la legge sul testamento biologico, Betori ha detto: “Devono rafforzare quello che è il patto che si è stabilito tra malato, famiglia e medico, e all’interno di questo patto risolvere i problemi, così come è stato fatto sempre”. Secondo il segretario generale della Cei, invece, “si crea un’atmosfera contraria a questa situazione, se si mette il medico con le spalle al muro e lo si indebolisce nella sua figura e nella responsabilità che ha saputo esercitare in tutti questi anni”.

Per una “trasversalità organizzata”. “Una trasversalità organizzata, non occasionale o episodica, per contare di più e far sentire la propria voce a partire dalla convergenza comune sulla difesa della vita”. Ad auspicarla è Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, che traccia un primo bilancio della Settimana Sociale in termini di “biopolitica”. “Come un secolo fa, nella Rerum Novarum di Leone XIII – è la tesi di Casini – la questione operaia è stata il punto di partenza del movimento cattolico, così oggi un’altra categoria di oppressi, quella dei bambini non ancora nati, può diventare il punto di partenza per ricostruire un’unità tra i cattolici, grazie ad una politica intesa come azione comune di intelligenza, di scelte strategiche e di voto”.

L’emergenza educativa. “È la prima volta, in assoluto, che in una Settimana Sociale ci si occupa dell’educazione”: ed è proprio “l’emergenza educativa” uno dei temi “più avvertiti come urgenti dai convegnisti”. A tracciare un primo bilancio della 45ª edizione della Settimana Sociale è Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa, secondo il quale dai lavori della Settimana “è emersa soprattutto la complessità della realtà contemporanea, che va riconcettualizzata e ritradotta in prospettive concrete di bene comune”. Per quanto riguarda l’emergenza educativa, secondo il giurista, “compendia tutto: non possiamo immaginare che sia la società civile sia il mondo cattolico acquistino la consapevolezza del bene comune, se non ripartiamo da un’educazione alla cittadinanza, dall’impegno per la solidarietà, e da un’educazione alle virtù, di cui il presidente della Cei, mons. Bagnasco, nella sua relazione iniziale ha fatto un elenco molto preciso”. Per quanto riguarda un altro tema che ha ricevuto un vasto consenso dalla platea, quello della biopolitica, Dalla Torre ha precisato che “da un lato, come ha sottolineato il prof. D’Agostino, i temi della vita non possono essere condizionati da una cattiva politica. Dall’altro, però, non possiamo prescindere dall’idea che una buona politica deve essere a servizio della vita”.

Centralità della famiglia. “Superare una fuorviante contrapposizione, tuttora presente anche all’interno del mondo cattolico, tra chi promuove la famiglia, e sembrerebbe non occuparsi di pace, ambiente, legalità, responsabilità sociale e politica, e chi mette al primo posto della propria azione sociale ed ecclesiale la pace, la non violenza, la tutela del creato, ma sembra essere insofferente di fronte ai richiami sulla difesa della vita, dei valori della persona e della famiglia”. È questo, secondo Francesco Belletti, direttore del Cisf (Centro internazionale studi famiglia), il compito più urgente per rendere concreta la “centralità della famiglia”, emersa dai lavori di Pisa. “Promuovere la vita e la famiglia, così come promuovere la pace, la non violenza, la cura del creato – sostiene l’esperto – fanno entrambi parte del grande compito dei cristiani e dei cattolici, di testimoniare la gioia e la bellezza della compagnia di Cristo agli uomini. Non dobbiamo, cioè, farci intrappolare da alcuni meccanismi ideologici e politici del potere, secondo cui, ad esempio, se Benedetto XVI difende la vita e la famiglia è conservatore, reazionario, antimoderno, mentre se attacca la precarietà del lavoro è finalmente moderno, solidale, progressista”.

I media e il bene comune. “Nella nostra riflessione sul bene comune dobbiamo tenere conto sempre di più delle dinamiche del mondo della comunicazione”. Lo sostiene mons. Claudio Giuliodori, vescovo di Macerata. “Questo significa che bisogna considerare come la stessa nozione di bene comune venga influenzata e determinata dai media. La dialettica dei rapporti Stato, privato, soggetti sociali non è sufficiente, oggi, a configurare la prospettiva del bene comune. Al suo interno gioca, come una variabile indipendente, proprio il meccanismo della comunicazione sociale che contribuisce a costruire un immaginario collettivo e a coagulare il consenso. Diventa decisivo – secondo mons. Giuliodori – considerare il nuovo ambiente esistenziale determinato oggi dal mondo della comunicazione di massa, che contribuisce a formare l’orizzonte di valori di riferimento. E in questa direzione i cattolici devono arricchire la loro riflessione”.

No all'”antropologia neutrale”. “Oggi l’antropologia viene spesso declinata in modo neutro, a prescindere dal valore fondamentale della persona, che è l’identità del genere: quasi che fossimo tutti uguali, con gli stessi interessi”. Paola Ricci Sindoni, ordinario di filosofia morale all’Università di Messina, traccia un primo bilancio della Settimana Sociale si sofferma su un tema solo apparentemente “sottinteso”: quello del contributo delle donne cattoliche alla vita del Paese. “Declinare l’antropologia in modo duale – puntualizza – non è tornare al cliché della rivendicazione, quanto ridare impulso alla questione femminile, che lavora in reciprocità con quella maschile”. A quasi 20 anni dalla Mulieris Dignitatem, per la filosofa, “è urgente rimettere al centro l’antropologia duale e la reciprocità. Sono le donne e gli uomini che portano avanti la storia: l’antropologia neutrale fa invece il gioco delle lobby internazionali, che oggi puntano molto sulla scelta soggettiva dell’orientamento sessuale, proprio a partire dalla neutralità del genere”. Quanto all’impegno delle donne in politica, secondo Ricci Sindoni, “devono portare nella gestione della cosa pubblica valori tipicamente femminili, come la relazionalità e la capacità di comporre i conflitti”.

Ripartire dal territorio. “Ripensare la Settimana Sociale valorizzando maggiormente il territorio”, per superare “una pastorale ancora troppo sacramentale”, e “ripartire dalla formazione dei laici” come “priorità”. Sono queste le due consegne che scaturiscono idealmente dalla 45ª edizione della Settimana Sociale. Mons. Alessando Plotti, arcivescovo di Pisa, città ospitante (insieme a Pistoia) dell’edizione del centenario della settimana ritiene che “serietà, impegno, ascolto”: siano stati, i tre atteggiamenti che definiscono al meglio il “clima” delle giornate pisane del convegno, che ha trovato una città “molto ospitante”. “In una comunità ecclesiale ancora troppo ripiegata su un’impostazione pastorale di tipo sacramentale – ha detto Plotti – i laici devono essere sempre più pronti a prendere la parola sui temi che riguardano la vita pubblica”. Di qui la necessità di “insistere di più sulla missionarietà, all’insegna del primato dell’annuncio”, a partire dal “primato dell’educazione e della formazione”.

(22 ottobre 2007)

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