Gli occhi al futuro

Settimana Sociale

Nei quattro giorni di lavori della Settimana Sociale di Pistoia-Pisa (18-21 ottobre) sono state presentate numerose relazioni e interventi sui temi della storia delle stesse Settimane, il bene comune e la globalizzazione, il rapporto Stato-mercato, la questione biopolitica, l’educazione e il futuro del bene comune. Ecco alcuni stralci dei pensieri più significativi, emersi durante le diverse sessioni.

Bene comune: cammino di 100 anni. “Mentre guardiamo ai luminosi esempi di quanti, a partire da Toniolo, dettero vita alle Settimane Sociali, non dobbiamo attardarci sul passato. Dobbiamo invece rivolgere gli occhi al futuro che è alle porte. Il futuro del bene comune è fatto di proposte concrete nei singoli ambiti della modernità che avanza”. Lo ha detto in apertura Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa e vicepresidente del Comitato Settimane Sociali, al quale ha fatto eco il presidente della Cei, mons. Angelo Bagnasco: “Nel diretto impegno politico, i laici sono chiamati a spendersi in prima persona attraverso l’esercizio delle loro competenze e contestualmente in ascolto del Magistero della Chiesa”. Mons. Bagnasco ha anche aggiunto che quella dei “pastori” sarà una “parola chiara, ferma e rispettosa, protesa anzitutto a ribadire i principi non negoziabili. Chi sta vicino alla gente – al contrario di quanti si muovono da posizioni preconcette – percepisce che esiste ed è forte l’attesa di una loro parola, dato che il delicato momento vissuto dal Paese rende ancora più forte l’esigenza di punti di riferimento autorevoli”.

Una strategia sociale. La storia centenaria delle Settimane Sociali le ha connotate, specialmente negli ultimi decenni, come “un po’ gli stati generali del pensiero politico-sociale” – ha detto lo storico Andrea Riccardi, aggiungendo che gli anni recenti di Papa Giovanni Paolo II – sono stati quelli di un “cristianesimo italiano (che) non è un partito politico, ma una forza sociale, anima di un ethos di popolo” per un “servizio da offrire a tutta l’Europa”. L’arcivescovo Domenico Sorrentino, studioso e postulatore della causa di beatificazione di Toniolo, ha così definito il fondatore delle Settimane: “Si preoccupò di far crescere all’interno del mondo cattolico una visione programmatica e un impegno effettivo che ebbe per lui un preciso slogan nell’espressione Democrazia cristiana, che allora non era ancora il partito politico. Diventò in questo modo il grande ideatore e stratega di una cultura sociale dei cattolici d’Italia… Toniolo dice ancora oggi l’importanza di una fede che sia capace di farsi storia”. Concetto ribadito anche dallo storico Giorgio Petracchi, secondo il quale le Settimane sono state “una scuola di democrazia che sopravvisse al fascismo e permeò in gran parte anche la cultura politica della prima Repubblica”.

Globalizzazione, Stato, mercato. “Il modello di democrazia rappresentativa non è in grado, nelle attuali condizioni storiche, di generare e difendere quelle istituzioni economiche da cui dipende sia un elevato tasso di innovatività sia l’ampliamento della platea di soggetti che hanno titolo per partecipare al processo produttivo. La democrazia deliberativa, invece, mostra di essere all’altezza della situazione”. È la tesi proposta da Stefano Zamagni, economista, nella sessione sulla globalizzazione, a cui ha fatto eco un altro economista, Leonardo Becchetti, secondo cui “il recente boom dell’economia della responsabilità sociale può avere un ruolo chiave nella promozione del bene comune”, considerato anche che “siamo 6 miliardi di persone e pertanto creare valore economico è una questione ineludibile. In questo senso, oggi noi credenti non possiamo farci confinare nel ghetto della distribuzione, ma dobbiamo saper entrare nel mondo della produzione di valore”. Per il card. Renato Raffaele  Martino, presidente del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, “l’economia è un aspetto della dimensione umana. Ciò implica un rapporto sussidiario tra le diverse parti e l’azione ad essa collegata va finalizzata ad altro da sé, cioè a quanto Toniolo chiamava il bene comune”. Quanto alle politiche sociali, il sociologo Luigi Frudà ha aggiunto che “sin da adesso si potrebbe iniziare a incidere sulle patologie della famiglia, cominciando con provvedimenti quali politiche per l’istruzione, sostegno alla natalità, servizi per la famiglia, trasferimenti pubblici per costituire il capitale familiare specie per le coppie giovani”.

La biopolitica. “L’orizzonte della biopolitica è ben più ampio di quello della bioetica”, ed oggi “la pervasività della biopolitica è inquietante”. Lo ha detto il giurista Francesco D’Agostino, che ha esemplificato: “La legalizzazione pressoché planetaria dell’aborto, avvenuta non casualmente in un arco temporale estremamente ridotto e caratterizzato almeno in Occidente dal consolidarsi del modello democratico… Segno inequivocabile della forza con cui il paradigma biopolitico pretende di gestire la nuda vita, autorizzandone l’esistenza o almeno sindacandone la stessa legittimazione sociale”. “Uno dei percorsi nei quali è riconoscibile la biopolitica come potere sulla vita è individuabile nella diffusione della ideologia gender – ha detto Laura Palazzani, docente di filosofia del diritto – che pretende la legittimazione del potere riproduttivo (in particolare delle donne) e del potere di scelta dell’orientamento sessuale (per ogni individuo)”. “In questa prospettiva – ha aggiunto – ciò che conta non è il fatto di nascere maschi o femmine, ma come si è educati nella famiglia e nella società, come ci si percepisce nella sfera psichica soggettiva. Da qui l’intenzione di sostituire il genere sociale al sesso naturale”. Secondo il sociologo Sergio Belardinelli, “l’argine alla biopolitica è il concetto di persona”.

Educare e formare. “Oggi c’è una crescente dissociazione tra sfera pubblica e sfera privata”, a cui corrisponde “un andirivieni disinvolto e quasi schizofrenico fra modelli etici radicalmente incompatibili: un’etica severamente normativa, al limite dell’accanimento, nella sfera pubblica; un’etica gelosamente soggettivistica, al limite dell’emotivismo, nella sfera privata”. È la denuncia del filosofo Luigi Alici, che ha aggiunto: “C’è un’oscenità esibita con cui ci illudiamo di conquistare visibilità nello spazio pubblico, ma c’è un’oscenità non meno grave, fatta di silenzi omertosi, di decisioni prese in conventicole segrete, dove dalle scelte di pochi intimi dipendono lo sviluppo e persino la vita di intere popolazioni”. “L’istruzione è un bene contagioso, che si riproduce tanto più siamo in grado di farne parte agli altri. L’educazione in campo cattolico si basa su un concetto di servizio”, ha detto la sociologa Luisa Ribolzi, mentre, per il pedagogista Giorgio Chiosso, “la stabilità di una società non dipende soltanto dal buon funzionamento delle istituzioni ma dalle virtù civiche dei suoi cittadini. Si tratta di veri e propri elementi costitutivi dell’integrità democratica”.

Le prospettive europea e internazionale. “Per pensare un futuro del bene comune in Europa credo occorra dare contenuto a tre parole. La prima è proprio Europa”: lo ha detto mons. Aldo Giordano, aggiungendo che “la vicenda del Trattato e il dibattito sulle radici cristiane esprimono la difficoltà nella ricerca di un bene comune” che è “economico e anche politico, cioè basato sulla pace, su come evitare tragedie come le guerre mondiali”. Secondo Alessandro Azzi (Banche di credito cooperativo), “le istituzioni finanziarie possono concorrere alla costruzione del bene comune se scelgono di essere strumento di sviluppo dell’economia reale” divenendo “strumento di inclusione nei circuiti economici, se cambiano l’orizzonte delle persone, famiglie e comunità, se permettono di partecipare, di avere voce e di decidere a quanti vogliono intraprendere”. Azzi ha citato alcuni tra i fondatori di casse rurali, quali don Sturzo, don Guetti, don Ceccarelli, Toniolo, Tovini, “preti e laici dal coraggio leoniano”. E ha concluso: “Il premio Nobel al banchiere indiano Yunus è come fosse stato attribuito ai tanti anonimi fondatori di casse rurali”.

Bene comune: utopia o realtà? “Sul piano sociale – secondo Savino Pezzotta – si sono allentati gli elementi di connessione, d’appartenenza, di relazioni, mentre s’è venuta insinuando una propensione individualista e corporativa”. Nonostante ciò, “dalla società italiana sale una domanda di serenità e di normalità”, e molte persone “esprimono, magari attraverso forme e modi non sempre condivisibili, un’esigenza di onestà, di buona politica, di legalità e di partecipazione”. “Il bene comune – secondo il magistrato Giuseppe Anzani – è un concetto che tende all’utopia, dato che finché lasciamo fuori qualcuno il bene non è comune”, mentre la giustizia gli può dare concretezza, poiché “restituisce a ciascuno il suo, nessuno escluso”. L’esigenza di fondo, però, è “fare leggi che non siano solo teoremi del giusto, ma siano sapienti, ossia conducano verso un bene comune”.

(22 ottobre 2007)

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