Costruttori di ponti

DOPO VERONA

“Non stancatevi di costruire ponti di comprensione e comunicazione tra l’esperienza ecclesiale e l’opinione pubblica”. L’invito di Benedetto XVI agli operatori della comunicazione sociale, ricevuti in udienza il 2 giugno scorso, era in cima ai nostri pensieri nei cinque giorni del Convegno di Verona. Alle spalle avevamo un percorso di ascolto e racconto del territorio e di diverse realtà nazionali. Un itinerario indispensabile per comprendere il significato dell’appuntamento veronese. Era iniziato nell’aprile 2005, quando la traccia di riflessione aveva dato il via a una preparazione che SIR ha costantemente seguito grazie anche alla rete dei 160 settimanali diocesani. Ci accompagnavano, in particolare, due antiche domande: “In quale misura è possibile far uscire dagli spazi ecclesiali quanto si sta pensando e costruendo nei mille incontri per Verona?
Il racconto di un’esperienza di popolo può suscitare qualche interesse anche in chi non abita questi spazi?”.
Verona ha opportunamente accentuato gli interrogativi. La speranza passa anche dall’impegno degli operatori cattolici della comunicazione sociale per sostanziare quel “sentire comune” che li unisce nello sforzo di “immettere nel grande circuito della comunicazione la voce e le ragioni della Chiesa”.
“Costruire ponti di comprensione” sarà meno difficile dopo Verona se, liberi nell’appartenenza, i media cattolici consolideranno quella “sinergia” che, assai prima di essere questione tecnica, è profonda stima reciproca.

Piccoli passi possibili. Siamo arrivati a Verona con altre domande: “Quali suggerimenti all’informazione religiosa verranno da questo Convegno? Quali cambiamenti saranno richiesti perché il fatto religioso sia almeno in parte liberato da letture ideologiche e politiche?”. Per cinque giorni la sala stampa del Convegno é stata, su questi punti, un interessante e simpatico luogo di confronto tra giornalisti che lavorano in testate di diversi colori.
Nel prendere atto dell’altrui fatica professionale, che sempre merita rispetto, ci si é chiesti se potrà essere utile un “laboratorio” per condividere la fatica giornalistica di entrare in una realtà quale è la fede e in un’esperienza quale è la Chiesa. Si potrà realizzare un “luogo di pensiero” in cui affrontare, al di là dell’ecclesialese, la complessa questione di un linguaggio “altro” che si misura ogni giorno con quello mediatico?
Senza illudersi che basti questo per ridurre letture ideologiche, parziali o strumentali ma anche senza accettare che ai “vecchi schemi” di lettura del fatto religioso si contrappongano solo critica e disapprovazione. Davanti a questioni complesse si hanno due atteggiamenti: la rassegnazione o l’audacia, la protesta o la proposta.
Non esistono risposte facili. Ma se non è pensabile un passo risolutivo sono forse pensabili piccoli passi, a partire dal “dialogo professionale” tra persone che svolgono lo stesso mestiere.

Nessun interesse di parte. Verona ha ricordato, che in nessun campo i cattolici difendono o promuovono interessi propri. Il Convegno non è stato un’autocelebrazione della Chiesa italiana. È stato un atto di amore e di speranza per il Paese. Così non esiste un “giornalismo cattolico” fine a se stesso, esiste un buon giornalismo di cattolici per “una comunicazione non evasiva ma amica, al servizio dell’uomo di oggi”.
I media cattolici non sono al di fuori delle difficoltà e delle sofferenze del mestiere di comunicare e avvertono la responsabilità di un contributo serio e positivo per rafforzare uno dei pilastri della democrazia. Anche questo è un terreno sul quale cercare un dialogo nella verità.

L’urgenza di un patto. Un altro spunto di riflessione, emerso a Verona, è “interno” e riguarda i destinatari “naturali” dei media cattolici: le persone e le comunità cristiane. Sta indubbiamente maturando un atteggiamento positivo ma non sembra ancora all’altezza della qualità professionale degli stessi media cattolici.
Anche questo è un problema antico.
Verona ha confermato la necessità di proseguire con più vigore sulla strada indicata dal direttorio Cei “Comunicazione e missione” a partire dalla figura dell’animatore della cultura e della comunicazione. È sempre più importante far comprendere che i media cattolici, pur non essendo gli unici da utilizzare, sono strumenti “imprescindibili” per conoscere e, quindi, comunicare il pensiero e la vita della Chiesa.
Tra le molte conversioni auspicate c’è anche quella “culturale” senza la quale anche la qualità professionale dei media cattolici potrebbe correre il rischio di non trovare corrispondenza.
Non si tratta solo di questioni di tirature e di bilancio, pure importanti.
Nel dibattito sui grandi temi nessuno è esonerato dalla fatica di conoscere, approfondire e pensare.
Ecco perché tra comunicatori ed educatori dovrà prendere maggior consistenza, nel rispetto delle diverse responsabilità, un “patto” di reciproco stimolo nella comune ricerca della verità.

Paolo Bustaffa

(27 ottobre 2006)

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