Il bene più prezioso. Una riflessione di mons. Semeraro

L’ultimo documento esplicitamente e direttamente dedicato all’Eucaristia risale a quasi quarant’anni or sono, ossia all’enciclica Mysterium fidei (3 settembre 1965) nella quale Paolo VI, comunicando lo stupore di chi posto dinanzi alla varie modalità di presenza del Signore nella sua Chiesa, ribadiva la fede sulla sua presenza “corporale e sostanziale” in questo Sacramento. L’annuncio della pubblicazione, il prossimo Giovedì Santo (17 aprile), della nuova enciclica sull’Eucaristia da parte di Giovanni Paolo II, suscita ora una nuova fervida attesa e un crescente interesse. La Chiesa in Italia e le chiese della Puglia, in particolare, accoglieranno questo ulteriore atto magisteriale del Papa anche nella prospettiva del XXIV Congresso eucaristico nazionale, cui già si preparano e che si svolgerà a Bari dal 21 al 29 maggio 2005. Suo tema sarà la famosa espressione dei 49 martiri di Abitene: “Non possiamo stare senza il Giorno del Signore”. Si tratta di una formula che, pure facendo chiaro riferimento all’assemblea domenicale, si riferisce in ogni caso all’Eucaristia, il dominicum per eccellenza. La Chiesa non può vivere senza l’Eucaristia. La ragione è ovvia: nell’Eucaristia la Chiesa ha il suo bene più prezioso e da essa le deriva la sua perfezione. Il mistero eucaristico può essere accostato da prospettive molteplici. Vale la pena ricordare quell’aspetto che maggiormente è stato sottolineato dal Vaticano II e che è la finalità ultima dell’Eucaristia: generare la Chiesa in quanto comunione. L’Eucaristia fa la Chiesa mediante comunione. Per tale ragione, qualsivoglia comunità nella Chiesa non potrà mai essere formata senza avere come radice e cardine la celebrazione eucaristica, alla quale deve, di conseguenza, ispirarsi ogni educazione allo spirito comunitario. Questa coscienza della forza dell’Eucaristia, da sempre presente nella fede cristiana, ha fra le sue prime espressioni il testo di san Paolo: “Essendo uno solo il pane, noi siamo un corpo solo sebbene in molti, poiché‚ partecipiamo tutti dello stesso pane” (10,17). Già san Leone Magno, sull’onda dell’affermazione paolina, predicava che “la nostra partecipazione al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a farci diventare quello che mangiamo”. A me piace applicare all’Eucaristia la suggestiva immagine riferita da san Bernardo al Verbo incarnato: essa è panis esuriens, un pane che ha fame… fame di noi. Questa verità deve guidare non solo la nostra fede, ma pure la nostra prassi. In altre parole sarebbe un controsenso celebrare, partecipare all’Eucaristia e non vivere secondo una prassi di comunione. L’indisponibilità alla partecipazione, in questo caso, segnala ed evidenzia una grave indisponibilità alla comunione. L’essere non-disponibili alla condivisione è uno svuotamento non solo di senso, ma addirittura d’efficacia della celebrazione eucaristica. Il cristiano, infatti, mostra di essersi nutrito non solo materialmente, ma anche spiritualmente del corpo e del sangue di Cristo se diviene capace e impegnato a condividere. Nel primo volume del Catechismo dei giovani si legge: “Perpetuare egoisticamente disuguaglianze e differenze, chiudersi ai bisogni dei poveri e alle esigenze della giustizia è rendersi indegni del corpo di Cristo ed esporsi ad un giudizio di condanna… È un controsenso cibarsi del corpo di Cristo nel banchetto eucaristico, mentre laceriamo il suo corpo vivo, che è la Chiesa, con insensibilità, chiusure e ingiustizie, e perpetuiamo dolorose disuguaglianze. É necessario invece che, proprio all’interno dell’Eucaristia, rendiamo presenti i segni dell’attenzione ai poveri, della solidarietà verso chi è in particolari necessità, l’impegno per nuovi rapporti di uguaglianza”. Ecco qui ben descritta la verità insita nell’affermazione che l’Eucaristia fa la Chiesa: fa la Chiesa come la comunità degli uomini che, in comunione con Gesù Cristo, danno la propria vita per gli altri. Marcello Semeraro – vescovo di Oria

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