Da 30 anni il Sir è voce dei senza voce

Condizione primaria per chi aspira a essere “voce dei senza-voce” è la capacità di ascolto: infatti, chi è senza voce - il povero, l’emarginato, il piccolo - ha bisogno innanzitutto di essere ascoltato, di trovare persone capaci di udire la sua flebile parola, di interpretare i messaggi che paiono banali tanto sono quotidiani, umili, nascosti. Non si può pensare di sapere cosa l’altro vuole esprimere se non lo si lascia parlare, se non lo si ascolta con cuore docile, se non si sa pesare la fatica e la gioia che le sue parole o i suoi silenzi contengono

foto SIR/Marco Calvarese

Trent’anni, per un’agenzia di stampa con bollettini di notizie quotidiane, sono un tempo lunghissimo, una somma di piccoli e grandi fatti, di reazioni a caldo e di riflessioni ponderate, di interviste e di approfondimenti che compongono infiniti dettagli di un quadro mai completato. Nel messaggio inviato da Papa Francesco al Sir per questo felice anniversario mi pare di scorgere due assi portanti, che sono al contempo segno di gratitudine per quanto fatto finora e augurio di poter continuare a farlo con rinnovata energia: essere “voce di chi non ha voce” e “fautori di comunione nell’informazione”.

Condizione primaria per chi aspira a essere “voce dei senza-voce” è la capacità di ascolto: infatti, chi è senza voce – il povero, l’emarginato, il piccolo – ha bisogno innanzitutto di essere ascoltato, di trovare persone capaci di udire la sua flebile parola, di interpretare i messaggi che paiono banali tanto sono quotidiani, umili, nascosti. Non si può pensare di sapere cosa l’altro vuole esprimere se non lo si lascia parlare, se non lo si ascolta con cuore docile, se non si sa pesare la fatica e la gioia che le sue parole o i suoi silenzi contengono.

Dopo, solo dopo questo ascolto, c’è bisogno di mezzi di comunicazione che amplifichino o, meglio, trasformino il grido inarticolato o il sussurro di sofferenza in un appello chiaro, forte, comprensibile da chi ha il potere e il dovere di intervenire: i senza-voce necessitano di media che sappiano “gridare dai tetti” quanto hanno potuto ascoltare nel segreto di vite segnate dal dolore ma anche dalla fede e dalla speranza.

Farsi voce di altri significa allora conoscerli a fondo, mettere parole autentiche ai loro pensieri, espressi o non espressi, conferire autorevolezza all’opinione di chi non conta nulla nella società e a volte conta poco anche all’interno della Chiesa.

A queste qualità, che solo un lavoro di équipe può sperare di garantire, si aggiunge un elemento decisivo per riuscire davvero ad animare la “comunione nell’informazione”: il respiro di comunione, l’anelito alla “cattolicità” della Chiesa. Saper cogliere “il tutto nel frammento” a partire da un evento marginale di una realtà ecclesiale minore e offrirlo a un pubblico più vasto non come curiosità provinciale ma come gioiello di un patrimonio universale; saper calare nel vissuto quotidiano di parrocchie, movimenti e gruppi, magari piccoli e marginali, l’afflato evangelico che anima eventi di dimensione nazionale, internazionale, mondiale.

Sì, il tessuto ecclesiale resta saldo e coerente quando ogni sua fibra, anche minuscola, riesce a essere valorizzata per quanto ha di buono: il colore, la resistenza, il calore, la freschezza che riesce a condividere e trasmettere.

Ascoltare i piccoli, farsi loro portavoce e connettere le realtà locali tra loro e con l’universalità della Chiesa può sembrare compito immane, impossibile.

Ma è proprio a partire da un umile lavoro quotidiano – che presta attenzione alla singola persona, che scopre il dettaglio apparentemente insignificante, che raccoglie il tenue soffio di novità che spira in una periferia, che amplifica il cantus firmus della Chiesa tutta, che registra il battito del cuore dell’intero corpo ecclesiale – è proprio da un semplice bollettino di notizie autentiche che può nascere e alimentarsi quella “comunione di informazione” che diventa voce del senza-voce per eccellenza, l’agnello afono condotto al macello (cf. Is 53,7) che, risorto, sta ritto sul trono (cf. Ap 5,6) a regnare nei cieli nuovi e nella terra nuova dove l’ultimo nemico, la morte, è stata vinta per sempre (cf. 1Cor 15,26).

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