Elemosina: don Colmegna (Casa della carità), “riguarda noi e la nostra cultura impazzita di egoismo”

Don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità "Angelo Abriani" di Milano, al Sir: "L'elemosina riguarda noi, non è un gesto per possedere il povero". È un appello alla responsabilità e all'accoglienza, anche nei riguardi dei migranti e dei giovani, in una "cultura impazzita di egoismo". L'antidoto? Una Chiesa "impazzita del Signore"

Don Virginio Colmegna (Foto Siciliani-Gennari/SIR)

L’elemosina, prima che il destinatario, “riguarda noi” e deve fare i conti con la nostra società “impazzita di egoismo”, di cui le principali vittime sono i giovani. Don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Abriani” di Milano, rilegge come appello alla responsabilità la pratica quaresimale che Papa Francesco declina spesso in termini di prossimità e concretezza. La carità è anche accoglienza, perché ci chiede di accogliere il Vangelo “sine glossa”, senza sconti, nelle vesti di coloro che arrivano da noi dopo essere fuggiti dalla fame, dalla guerra e dalla violenza. Lo abbiamo intervistato.

Delle tre pratiche quaresimali, l’elemosina è forse quella più legata alla tradizione, ma anche quella che rischia di essere più fraintesa. Cosa vuol dire fare l’elemosina?
Credo possa essere molto utile, a riguardo, la rilettura di una lettera pastorale del card. Martini, “Farsi prossimo”, che presenta molte assonanze col magistero di Papa Francesco. L’importante, nel fare l’elemosina, non è tanto quanto si dà e la relazione di aiuto, ma il riportare dentro se stessi il senso di quanto si è dato in dono.

L’elemosina riguarda noi,

ci chiede di riflettere su cosa cambia dentro di noi, sul perché vogliamo compiere il gesto di dare qualcosa a qualcun’altro che ha bisogno.

L’elemosina non è un gesto per possedere il povero, ma è qualcosa che ritorna a noi come responsabilità, che coinvolge il nostro impegno personale, che ci chiede un cambiamento dei nostri stili di vita e fa appello alla nostra sobrietà.

Anche se si tratta di un piccolo dono, fatto davanti alla chiesa o in un crocevia, quella storia ci interessa, ritorna a noi. Spesso siamo tentati di cancellare il tema della povertà come una bruttura: l’elemosina è un gesto che, secondo le nostre possibilità, chiama la nostra intelligenza e la nostra fede a una responsabilità grossa.

Francesco ci richiama spesso alla necessità di toccare la carne del povero: è un invito alla prossimità?
L’invito del Papa alla prossimità non va inteso in termini di un idealismo bello, buono, usato apposta per noi. Ogni giorno, alla Caritas, entrano 80-90 persone che si portano dentro la propria miseria, i propri errori, le proprie devastazioni.

I poveri ci responsabilizzano, ci cambiano, ci esortano a non essere persone che vivono astrattamente o utilizzano la povertà strumentalizzandola.

Toccare la carne del povero, come ci esorta a fare Francesco, comporta la responsabilità di cambiare il nostro sguardo per imparare a guardare e abbracciare gli ultimi con la mitezza, la tenerezza di Dio e con la misericordia, che è l’asse strategico di questo pontificato.

La carità è accoglienza, anche di coloro che arrivano da noi perché fuggono dalla loro terra per scampare alla guerra, alla fame e alla violenza. Dal suo osservatorio, qual è lo “stato di salute” degli italiani verso questa pratica, in una società che rischia di alimentare i muri e le paure?
L’accoglienza sembra mettere paura, nel contesto di quella che il Papa nella Laudato si’ chiama l’economia dello scarto. Ne ha parlato anche nella recentissima visita nei luoghi di san Pio.

L’impegno ad accogliere i migranti e i rifugiati riguarda tutti noi: non è una carica di carattere sociologico, è soprattutto dinamica, perché ci chiede di accogliere il Vangelo “sine glossa”, senza sconti.

Come impariamo in questo tempo pasquale, è il senso di Dio che si fa uomo attraverso il dolore, prendendo su di sé la schiavitù del peccato e riscattando i nostri peccati e la morte tramite lo spiraglio di luce della Veglia di Pasqua. Dobbiamo raccontarle, la Passione e la Resurrezione, per far capire che non si tratta semplicemente di aiuto, ma di una Chiesa che condivide, che fa amicizia con chi ha bisogno. Giovedì Santo, con i nostri ospiti, ma anche con tutti i volontari che si prendono cura di loro, usciremo per strada: sarà un modo per “stare a tavola”, per

dare testimonianza di una Chiesa come casa aperta dove restare gli uni accanto agli altri, in una cultura spesso impazzita di egoismo.

Un egoismo che diventa l’aria che respiriamo, soprattutto per i giovani. Alla vigilia del Sinodo che Papa Francesco ha convocato per loro, ci vuole un supplemento d’impegno per educarli alla carità?
Sicuramente si tratta di una partita difficile, ma anche di un’esperienza straordinaria. Siamo messi in questione dai giovani che vengono a stare con noi.

Dobbiamo mostrare loro la bellezza di essere educati dai poveri, non dobbiamo essere dei conquistatori.

I giovani hanno bisogno di una speranza che dilata il cuore, di una felicità che consiste nel non perdere mai la speranza. L’Evangeli gaudium parla della grazia pasquale da instillare nel cuore dei giovani, che hanno bisogno di profondità e di normalità, non di eroismo. Occorre dare loro un senso al vivere che non sia la tecnologia, ma la tenerezza dentro le relazioni.

Ci vuole una Chiesa impazzita del Signore, che sappia orientare la speranza. Il Sinodo dei giovani non può essere una scelta burocratica, ma di Vangelo.

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