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#FutureOfHumanity. Card. Ravasi: “E ora cultura e scienza camminino in equilibrio sul filo della vita”

Si è conclusa sabato 18 novembre a Roma, con l’udienza pontificia, l’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura sul tema “Il futuro dell’umanità: nuove sfide all’antropologia”. Tre giorni di confronto e riflessione sugli sviluppi del progresso scientifico e tecnologico e il loro impatto sull’autocomprensione dell’uomo. Questione che non è prerogativa di un’élite ma riguarda tutti. Domanda, intelligenza critica, transdisciplinarietà, dialogo scienza-umanesimo le parole chiave. Intervista a tutto campo con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero vaticano.

(Foto: Siciliani-Gennari/Sir)

“Una vita senza ricerca non merita di essere vissuta”. In questa affermazione, che nella “Apologia di Socrate” Platone attribuisce al suo maestro presentandone il testamento finale, si potrebbero riassumere il clima, lo spirito e l’ampiezza delle giornate lungo le quali si è snodata, dal 15 al 18 novembre, a Roma l’Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della cultura, sul tema “Il futuro dell’umanità: nuove sfide all’antropologia”. Tre giorni di riflessione, confronto e dibattito fra cardinali, vescovi, religiosi, teologi, filosofi, scienziati, esponenti della cultura ed esperti in nuove tecnologie, cattolici e non. Alla “mappatura” dei nuovi modelli antropologici sono seguite tre sessioni nelle quali scienziati ed esperti di medicina e genetica, neuroscienze e intelligenza artificiale, hanno presentato lo stato della ricerca delineando le potenziali applicazioni delle più recenti scoperte e confrontandosi su potenzialità, rischi e prospettive. A richiamare la citazione del Socrate platonico è il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del dicastero vaticano, chiudendo sabato mattina i lavori prima dell’udienza con Papa Francesco, che ha suggellato la plenaria richiamando la scienza ai suoi limiti e alla necessità di responsabilità etica. “Questo nostro incontro – spiega il porporato – non è stato concepito come un bilancio o un percorso definitivo, e neppure come un inizio: è semplicemente una strada lungo la quale procedere per continuare a ricercare”. Un orizzonte aperto perché “una vita senza ricerca non merita di essere vissuta. Così è per gli scienziati, così per noi, spinti dalla tensione escatologica”.

Eminenza, niente conclusioni dunque, ma che cosa la colpisce di più dagli scenari che sono stati delineati?
Si tratta di questioni fondamentali e urgenti dal punto di vista culturale, teologico e pastorale. Sarà questo il futuro dell’umanità, in parte già presente. Situazioni che fino a poco tempo fa sembravano materia di letteratura e di film fantascientifici, sono già oggi in qualche misura realtà. Si interviene sul Dna per “riparare” parti difettose del codice genetico, ma il rischio è arrivare a manipolazioni volte a creare un nuovo genotipo potenziato fino al configurarsi ipotetico di un nuovo fenotipo umano. Inquietante la possibilità di interventi neuronali per non avvertire il dolore (ad esempio nella medicina sportiva) o aumentare le facoltà cognitive e la memoria. Nel rapporto tra cervello e mente, che apre il grande capitolo della responsabilità e della moralità della coscienza, si rischia il riduzionismo funzionalista, e abbiamo sentito che nell’ambito dell’intelligenza artificiale, che ha certamente ricadute positive sul nostro quotidiano, comincia a porsi il problema dell’autocoscienza /autonomia dei robot. Si può essere certi che le reti neurali create per imitare i nostri processi cerebrali non possano un giorno sfuggire di mano a chi le ha inventate?

Come porsi di fronte a queste sfide?
È anzitutto necessario comprendere che oggi è questo il vero areopago di cui non si ha ancora piena coscienza. Il rischio è che la consapevolezza delle sfide poste dall’impatto della scienza e della tecnologia sul futuro dell’uomo rimanga esclusivamente prerogativa di un’élite di scienziati e tecnologi, mentre si tratta di ricadute che toccano tutti nel profondo, riguardano ogni uomo e perciò dovrebbero catturare l’attenzione di un pubblico più ampio. L’occhio bionico in campo militare per potenziare la visione notturna o gli impianti di microchip sottocutanei non sono un gioco di società, ma spie di mutamenti che incideranno sulla carne delle persone; eppure molti non hanno ancora strumenti per capirlo. Su questa piazza si affacciano scienziati, filosofi e teologi, ognuno con il proprio statuto epistemologico e con le proprie grammatiche. Si corre il rischio che, ancora una volta, tra gli scienziati arrivi pure qualche apprendista stregone e che tra noi vi siano alcune figure religiose tuttora legate a visioni deprecatorie o di irrisione caricaturale. Occorre purificare questi due modelli: è una questione di statuto, metodo, identità. Ma più in generale,

occorre che cultura e scienza camminino in equilibrio – per usare l’immagine di un filosofo contemporaneo – lungo la mirabile e delicata fune fisica, storica e trascendente della vita umana.

Quindi la sfida è anzitutto culturale?
Quando si esprime su questi temi, la Chiesa è spesso squalificata prima ancor di prendere la parola, tacciata di essere contro il progresso. È pertanto necessario uno stile ispirato al criterio dell’intelligere (intus legere), ossia del comprendere analizzando e giudicando criticamente. La vera intelligenza cerca di penetrare, si pone nei confronti della scienza in atteggiamento aperto, senza temere o detestare. Con una fiducia di base ma in modo critico, dicendo no al riduzionismo scientista che pretende di spiegare tutto secondo il metodo delle scienze naturali, e no al riduzionismo teologico che rischia di relegare il cristianesimo nel mondo delle favole. Il passo successivo è un approccio interdisciplinare, anzi transdisciplinare, mantenendo il proprio statuto epistemologico ma al tempo stesso acquisendo i contributi offerti da altre discipline. La Chiesa ci deve essere, pronta a confrontarsi con la “quarta rivoluzione”.

Che cosa intende dire?
Dopo le rivoluzioni copernicana, illuministico-darwinistica, socio-psicanalitica, stiamo oggi vivendo la “quarta rivoluzione”, quella dell’infosfera che ha modificato l’ambiente e della quale, oltre ai nativi digitali, anche noi, migranti digitali, siamo ormai parte integrante. Ma le piattaforme digitali non sono neutre. Oggi il vero potere è quello delle mega corporations come Google o Microsoft in grado di condizionare le opinioni e creare nuovi miti, oggetti fondamentali di riferimento. E i più esposti sono i giovani: oggi chi offre loro criteri di discernimento?

In che modo l’orizzonte che si sta delineando interpella teologia e pastorale?
A questi nuovi scenari – genetica, robotica, intelligenza artificiale e infosfera – il Papa è molto sensibile e di recente ha espresso l’intenzione di fare qualcosa in materia con tutti i capi dicastero. Non possiamo pensare che si tratti di processi che in qualche maniera si risolveranno e che basti andare avanti con il buon senso tradizionale. C’è ancora una pastorale che a volte tiene conto solo delle persone della mia generazione e ha pertanto bisogno di essere aggiornata alla luce della “rivoluzione” antropologica e culturale in atto. In molti è presente una domanda di comprensione più profonda. Bisogna sapersi mettere in ascolto per tentare di offrire risposte. Ma come è il nostro linguaggio? Non dobbiamo abbandonarlo ma certamente dare vita ad una narrazione nuova.

È stato richiamato il “paradigma tecnocratico dominante” delineato da Papa Francesco. Eppure qualche giorno fa il “Salvator mundi” di Leonardo è stato venduto all’asta per 450 milioni di dollari…
In questo scenario di funzionalismo esasperato diventa all’improvviso oggetto di desiderio un’opera per eccellenza del genio umano, dell’estetica, dell’inutilità. Henry Miller sosteneva che l’arte, come la religione, non serve a nulla, tranne che a mostrare il senso della vita. Per questo è giusto che non si perda: Steve Jobs diceva che per connettere i punti non basta guardare avanti ma bisogna anche guardare indietro. Questo ci consente di capire che noi uomini di religione e di cultura non andiamo nudi nella piazza nei confronti di una scienza e di una tecnologia che sembrano sovrane. Il fondatore di Apple, che di tecnologie un po’ ne capiva, ha lasciato detto nel suo testamento spirituale che occorre coniugare sciences e humanities per far cantare il cuore.

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