“Nonostante””il suo caratteraccio””ci ha voluto bene”

Così vorrebbe essere ricordato don Vinicio Albanesi da quella umanità in affanno che lui ha accolto nella comunità di Capodarco. Una realtà che oggi conta 19 sedi in Italia e 5 all'estero, con centinaia di operatori impegnati nella riabilitazione, accoglienza, e assistenza di disabili psicofisici. Le sue parole: "Non voglio essere un impiegato del sacro che non si lascia scomodare"

“Ma quale prete di strada, prete scomodo o di frontiera! Queste sono tutte dizioni che nascono più che altro all’interno delle redazioni dei giornali e che non corrispondono in toto alla realtà. Io sono un parroco. Dal 1984 guido una piccola parrocchia di duecento famiglie a san Marco alle Paludi!”. Puntualizza subito, don Vinicio Albanesi, 71 anni, che mostra di non amare troppo le definizioni giornalistiche che ingabbiano e che rischiano di cucirti addosso un abito troppo stretto. “Un parroco che cerca di darsi da fare in un mondo, come quello della disabilità che un giorno, siamo nel 1972, la Provvidenza gli ha messo davanti, e da cui è nata la comunità di Capodarco di Fermo” movimento che oggi conta 19 sedi in Italia e 5 comunità all’estero con centinaia di operatori impegnati in attività di riabilitazione, accoglienza, e assistenza di disabili psicofisici. “In fondo che cos’è un parroco, uno che si prende cura della sua gente, spiritualmente e materialmente, senza badare a distinzioni, regolari o irregolari, praticanti o no. Vuoi bene a tutti perché conosci ciò di cui hanno bisogno”. Per dirla in altre parole: “Non voglio essere un impiegato del sacro che non si lascia scomodare, che non si lascia coinvolgere e che chiude gli occhi davanti ai bisogni e alle sofferenze, quelle che oggi chiamiamo periferie esistenziali”. Perché, ribadisce, “non bisogna avere paura di chi incontri. Molti di questi, infatti, sono dei santi”.

Uno stile periferico. Un vero e proprio “stile periferico” quello di don Vinicio che riconosce: “tanta forza e molte lezioni le ho tratte proprio dalle persone che ho incontrato”. Uno stile che gli “permette di solidarizzare con la gente che lavora, con la madre che accudisce i figli. Come vuoi chiamare una donna che per 40 o 50 anni accudisce un figlio disabile o problematico? Io la chiamo santa anche se non la faranno mai santa. Come chiamare un genitore che per una vita si priva di tutto per far studiare i suoi figli? Io lo chiamo santo. Ecco, questa per me è santità feriale, quotidiana, silenziosa, che rende il mondo migliore”. Nel suo percorso all’interno della Chiesa e nell’impegno sociale don Vinicio ha assaporato sia l’esperienza del “poter salvare una vita” sia quella “bruciante della sconfitta”, “quando il senso colpa ti assale e ti fa dire, se avessi avuto più pazienza, se avessi fatto di più”. In quei momenti, ricorda, “solo la potenza di Dio mi ha evitato la perdizione. Noi siamo solo piccoli strumenti nelle mani di Dio. Nella storia delle persone che incontriamo, a volte interagiamo bene, a volte male. Ma al fondo vale la convinzione che la tua vita appartiene a Dio. Così facendo non ti senti un padreterno, un manager, ma solo un rivolo d’acqua che la Provvidenza conduce alla pianticella che è la vita di qualcun altro. Se viviamo così, Iddio è presente sempre e tutto diventa sacro”.

Una tenda fatta di fango. Tutto questo si può provare visitando la comunità. “Per me – dice sorridendo – la comunità è una tenda di fango, fatta di miseria e di bisogni ma anche di prospettive infinite che ti spingono ad alzare gli occhi al cielo. Una volta siamo eroi e martiri, un’altra volta piccoli vermi. La comunità può aiutare ad alzare lo sguardo, a tenere alto l’obiettivo della propria vita senza abbassarsi al livello dei vermiciattoli. Ed è quello che raccomando ai giovani quando dico loro che la vita è bella ma bisogna affrontarla con coraggio e speranza” anche se davanti si profilano “periferie esistenziali” che preoccupano non poco. Una di queste, per don Vinicio, “è la solitudine degli anziani. Paradossale che li si voglia far vivere e poi li si lascia soli in una non-vita. Come rispondere a questa deriva? Amando le persone anziane fino alla fine anche se non possono darti più nulla. Questa è la sfida che ti pone una persona anziana, demente, priva di prospettive e di possibilità di guarigione. Qui entra in gioco l’impegno della comunità, sia essa di riabilitazione, ecclesiale o civile chiamata a rendere dignitoso anche l’ultimo tratto di vita di un anziano senza abbandonarlo. Ci vuole solo un amore vero”. Lo stesso espresso da un’icona, tra le tante appese nello studio di don Vinicio, che rappresenta la Madonna della tenerezza, cui il sacerdote è particolarmente affezionato. L’abbraccio della Vergine a suo Figlio è lo specchio di una missione che non si chiude mai. Come non si chiudono le porte scorrevoli della comunità, sempre aperta giorno e notte. Per tutti, siano essi “poveri cristi, ammalati o sofferenti. Guardare a questi piccoli non è un’umiliazione: in fondo non sta scritto che ‘Loro è il regno dei cieli’? Volgersi a loro è prendere l’odore dell’umanità”. Ma come pensi ti ricorderà questa umanità? Così: “nonostante il suo caratteraccio ci ha voluto bene”.

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