Con lui spezzano il pane “”Quello eucaristico””e quello quotidiano””

Don Mario Zacchini, 68 anni, un decennio trascorso come ''fidei donum'' in Tanzania, dal 1995 è l'anima della comunità bolognese di Sant'Antonio di Savena. Qui ha lasciato il segno il cardinale Giacomo Lercaro. Prima è nata l'unità di strada - con l'accompagnamento di don Benzi - ''per andare incontro alle prostituite'' (occhio all'accento sulla seconda ''i''). Poi l'apertura al territorio e all'Africa " " " "

Un grande albero con tanti rami, fiori e frutti. Si possono raffigurare così le varie attività che fanno capo alla parrocchia bolognese di Sant’Antonio di Savena e al suo parroco, don Mario Zacchini. 68 anni, un decennio trascorso come “fidei donum” a Usokami, in Tanzania, dal 1995 è l’anima di questa parrocchia della prima periferia cittadina, frequentata a ogni ora da giovani e meno giovani, italiani e stranieri, volontari e persone bisognose di un aiuto. Nel corridoio che porta al suo studio, oltre alle immagini del Papa e del vescovo, una grande foto incorniciata di don Oreste Benzi e una del cardinale Giacomo Lercaro con tanto di autografo e dedica all’Azione cattolica parrocchiale; poi coperte, passeggini, libri e riviste e ancora foto di vari gruppi parrocchiali. Vita di comunità. “Arrivando qui da Usokami – comincia a raccontare don Mario – mi sono trovato da solo nella casa canonica, mentre in Africa si viveva un’immersione comunitaria molto evidente, sia in casa – dove c’erano altri due missionari, alcuni laici e le suore – sia per le relazioni familiari con la gente del villaggio”. Ma ancor prima del periodo in Tanzania, don Mario aveva fatto esperienza di vita comunitaria nella comunità presbiterale del Terrapieno, a Bologna, a fianco tra gli altri del futuro vescovo Benito Cocchi. Così il neo-parroco chiese al vescovo di poter accogliere un diacono e gli obiettori di coscienza della Caritas che volevano sperimentare la vita comunitaria. “Poi ci siamo aperti ai servizi sociali e, negli anni delle grandi migrazioni, soprattutto dall’Est, abbiamo cominciato ad accogliere questi fratelli stranieri”. Frattanto finisce il servizio civile “obbligatorio”, ma non i giovani con il desiderio di una “vita di condivisione”. Nella canonica si realizza quindi, giorno dopo giorno, una “commistione tra chi è fortemente nel bisogno e giovani delle nostre terre”. Spezzare il pane. Fin dalla prima esperienza nella comunità presbiterale, ciò che interroga e anima don Mario è il motto – che Lercaro volle ai piedi dell’altare della cattedrale – “Se condividiamo il pane celeste, come non condivideremo il pane terreno?”. “Spezzare il pane eucaristico – spiega – e non condividere il pane spezzato nel quotidiano mi sembrava rendesse impropria la stessa celebrazione eucaristica”. Peraltro, la casa canonica di Sant’Antonio ha una lunga storia di accoglienza, che affonda le radici nel 1200, quando il bolognese Zoen Tencarari (il nome è il diminutivo in dialetto di Giovanni) fu fatto vescovo di Avignone: da lì mandò i primi studenti d’Oltralpe all’Università di Bologna, che furono accolti proprio tra queste mura. Don Mario sottolinea la vita “familiare” che si vive in canonica, fondata su tre punti basilari: accoglienza (“gli uni degli altri, ma anche dei parrocchiani che vengono a fare visita e di chiunque ha bisogno”), tavola (i pasti sono alle 13 e alle 20, “importanti per creare condivisione, raccontare fatiche e gioie”) e preghiera (l’ora media mentre si sta terminando il pranzo, il Vangelo con il commento di don Oreste Benzi a cena, oltre all’adorazione eucaristica settimanale). In questa comunità “il prete – sottolinea – conduce tutti all’eucarestia celebrata per essere vissuta e nell’esprimere la parola del Vangelo nella carne, come ci dice Papa Francesco”. Un albero con tanti frutti. Ma l’albero parrocchiale, annaffiato da don Zacchini, ben presto ha cominciato a crescere, con la partecipazione dei laici e la formazione di numerosi ministri istituiti: accanto all’accoglienza nella casa (dedicata a Zoen) è nata l’unità di strada – con l’iniziale accompagnamento di don Benzi – “per andare incontro alle prostituite”, sottolinea il prete (ponendo l’accento sulla seconda “i”), quindi un’assistente sociale in pensione, Maria Chiara Baroni, “ha proposto di avviare un centro d’ascolto per la gente in difficoltà proveniente da altri Paesi”, mentre il parroco ha mantenuto il legame con l’Africa “per far conoscere a giovani e famiglie la condivisione di vita oltre al ‘recinto’ della casa, della parrocchia, della nazione”. È il progetto “Pamoja” (che in swahili significa “insieme”), attraverso il quale ogni anno una trentina di persone fa un’esperienza di missione. Finché, nel 2002, “la necessità di avere una presenza riconosciuta di fronte agli enti pubblici ha portato all’apertura della onlus ‘Albero di Cirene’, laddove il nome – precisa – richiama il cireneo che aiuta Gesù e questa ramificazione che cresce”. E i rami sono cresciuti: “Aurora” è per le mamme in difficoltà, “Liberi di sognare” si occupa dei carcerati alla Dozza, la “Scuola d’italiano Paola Moruzzi” aiuta gli stranieri ad acquisire padronanza della lingua. Due anni fa, infine, è nata “Arte migrante”, grazie a Tommaso, un giovane originario di Latina che vive in canonica, che ogni mercoledì sera raduna un centinaio di giovani – studenti, lavoratori, senza dimora e migranti di 15 nazionalità differenti – per “costruire una comunità alternativa che attraverso l’arte (musica, poesia, danza, teatro, giocoleria, pittura, fotografia) porta a entrare in dialogo e aprirsi alla condivisione con persone di altre culture”. Tutto sotto lo sguardo di don Mario, pronto a nuove sfide e a superare le difficoltà, perché “la Provvidenza provvede”.

Altri articoli in Archivio

Archivio

Informativa sulla Privacy