Come un mosaico

I 30 anni del Pontificio Consiglio della cultura

“Il Pontificio Consiglio della cultura raccoglie le grandi aspirazioni del Concilio, di cui è continuatore nella Curia e nella Chiesa”. Lo ha detto mons. Sanchez de Toca Y Alameda, sottosegretario del Pontificio Consiglio della cultura, presentando oggi – durante la Giornata di studio sul tema “Pastorale delle culture: lavoro creativo permanente” – un filmato sul dicastero, realizzato in collaborazione con la Rai, che verrà trasmesso domani sera, alle 21, sul canale Rai Storia, diretto da Giovanni Minoli. Istituito da Giovanni Paolo II con una lettera autografa il 20 maggio 1982, il dicastero della Santa Sede, che festeggia quest’anno i suoi 30 anni di vita, è legato “a filo doppio” con il magistero di Giovanni Paolo II, che fin dall’inizio del suo pontificato ha concepito la cultura – ha ricordato mons. De Toca – “non come un’aggiunta alle sue preoccupazioni pastorali, ma come la priorità”, tanto che la pose come tale già durante la prima riunione con i cardinali, nel novembre del 1979. “Priorità”, quella della cultura, poi confermata nel discorso all’Unesco, il 2 giugno del 1980, e nella “Laborem exercens”, la prima enciclica sociale di Giovanni Paolo II. I prodromi del Pontificio Consiglio della cultura, ha esordito il sottosegretario del dicastero pontificio, vanno rintracciati nella Gaudium et Spes, che contiene “per la prima volta un intero capitolo dedicato alla cultura, nella seconda parte”. Ma “tutta la prima parte parla della cultura”, per cui “non è un’esagerazione dire che la Gaudium et Spes è una costituzione sulla cultura contemporanea”. Altra eredità raccolta dal Pontificio Consiglio della cultura, quella del Segretariato per i non credenti, istituito nel 1965 in piena attività conciliare.

Policromia e interculturalità. “La cultura di sua natura non è monocroma, è policroma, e per questo è necessario che abbia tanti volti, i quali si ricompongono poi nell’unità del bianco, che è la sintesi di tutti i colori, e il colore più difficile da disegnare”. Il card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, ha citato il filosofo francese Jean Guitton per illustrare le attività principali del suo dicastero ed individuarne le prospettive future. “Una cultura che non si ricompone come un mosaico non ha più senso”, ha proseguito il cardinale soffermandosi sulla “policromia” della cultura, al centro innanzitutto delle attività del Cortile dei gentili, “areopago di dialogo con la secolarità e la secolarizzazione”. C’è poi il dialogo del dicastero con il mondo dell’arte, l’attenzione alle scienze, ai nuovi linguaggi come il mondo digitale, all’interculturalità: tutti oggetto di rispettivi dipartimenti, di cui uno dei più recenti è quello dell’economia, intesa come “legge delle cose del mondo”, e non come “una serie di giochi finanziari e virtuali, o una modellistica di mercato e di sviluppo”. Infine, ha sottolineato il card. Ravasi, il neonato dipartimento dedicato allo sport, caratterizzato da “un approccio teologico, filosofico, culturale, globale” che comprende ambiti come “la festa e il tempo libero, il corpo, i riti di massa e di aggregazione che lo sporto comporta”.

La “confusione” tra Vangelo e cultura. È questo, per Fabrice Hadjadj, il “dramma” che sta a monte di un altro dramma: la “rottura” tra Vangelo e cultura, secondo Paolo VI all’origine di tanti drammi della nostra epoca. Intervenendo alla Giornata di studio per i 30 anni del Pontificio Consiglio della cultura, il filosofo francese ha fatto notare come “l’aver confuso il Vangelo con una cultura ha fatto sì che la fine di questa cultura ha sancito la fine del Vangelo”, e ha addirittura costituito “una cultura contro il Vangelo”. Per Hadjadj, “è sbagliato credere che siano i non cristiani i responsabili della rottura tra il Vangelo e la cultura: è vero il contrario, sono quei cristiani che hanno confuso il cristianesimo con la cristianità ad aver prodotto la nostalgia di una cristianità perduta”. A 30 anni dall’affermazione di Paolo VI, inoltre, non c’è più solo la rottura tra il Vangelo e la cultura, ma anche “la rottura all’interno della stessa cultura, che è ormai divisa” ed in Europa è alle prese con un “odio di sé”. Da registrare, inoltre, secondo il filosofo è “la rottura interna alla cultura legata alla successione delle generazioni”, per cui i padri intendono la cultura semplicemente come “patrimonio, possesso di opere d’arte del passato” e i figli non si identificano più con essa, anzi “la odiano e si gettano verso le novità tecnologiche”.

L’antidoto al “post umano”. In Europa, è l’analisi del filosofo, la rottura tra il Vangelo e la cultura e la confusione tra il Vagelo e la cultura “è mortale”, tanto che la stessa cultura “è moribonda”, perché si è perso di vista il fatto che “la vera cultura è sviluppo dell’uomo, cultura dell’anima”. Hadjadj ha definito quella attuale una cultura del “post-umanesimo”, dove sembra che tutto ciò che conta sia “uscire dall’umano, poiché si pensa che l’umanesimo abbia fatto il suo tempo”. Tecnicismo, ecologismo e fondamentalismo: queste le tre derive di cui rischia di rimanere preda l’Europa, in cui la cultura è “ridotta a merce, in una sorta di supermercato universale”. Di fronte “alla tentazione del post-umano e del post-culturale”, ha concluso Hadjadj, “solo il cattolicesimo è in condizioni di salvare l’umanesimo”, all’interno però “di un un umanesimo teocentrico, non fondato sull’autocelebrazione dell’io, ma sulla sorveglianza di Dio sull’uomo”. pastorale di internet, ma come la rete ha cambiato il nostro modo di pensare la fede”.

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